Milano, 20 aprile 2014 - “Mangiare è una necessità. Mangiare intelligentemente è un’arte”, sentenziava François de La Rochefoucauld. Ma anche: “Gli animali si sfamano, l’uomo mangia, solo l’uomo d’ingegno sa mangiare”, secondo la lezione di Jean Anthelme Brillat-Savarin, autore della Phisiologie du goût, fondatore della scienza gastronomica. E sono proprio questi due sofisticati uomini di cultura ad aprire il saggio di Rosalia Cavalieri “E l’uomo inventò i sapori”, edito da Il Mulino: una documentata “storia naturale del gusto”, fin dalle origini della “scimmia che cucina”, quando si scopre il fuoco e si passa dal cibo crudo al cotto, indagine sull’evoluzione che eleva il semplice nutrimento a “valore culturale”.

“L’atto del mangiare si socializza, traducendosi in un’esperienza linguistica”, dice la Cavalieri, e “la nascita della civiltà trova nell’elaborazione del cibo, nella sua creazione-produzione, nell’apprezzamento e nella condivisione attraverso la parola, fattori determinanti”. Siamo dunque “animali sapienti, parlanti e conviviali”. Alimenti come simboli. Insieme di valori. E piacere che coinvolge almeno quattro dei cinque sensi (e fors’anche il quinto, l’udito, se si pensa allo sfrigolio d’una buona frittura o al sobbollire di un ragù). Con una serie di forti valenze di comunità: lo stare bene a tavola, insieme.

Hanno lo stesso sapore le considerazioni di Maryline Desbiolles in “Qualcosa che non ho mai cucinato prima”, edito da Sellerio, tre divagazioni sul preparare un piatto di seppie ripiene, sul frequentare una locanda ad Arezzo in attesa di andare a vedere i dipinti di Piero della Francesca , sul fastidio d’una famiglia modaiola e supponente che ordina “un risotto alle fragole”. Scelte culturali, comportamenti civili. D’altronde “cucinare è un atto creativo, di restituzione alla vita sotto nuove spoglie di qualcosa strappato alla vita, che è morto”.

Si torna alla cultura. E, dunque, alla critica. Strumento usato da Antonio Pascale, scrittore arguto, in “Pane e pace” (Chiarelettere), fin dal sottotitolo, “Il cibo, il progresso, il sapere nostalgico”, quel sapere cioè che, schematicamente, trasforma la ricerca del cibo “naturale” e dei “prodotti tipici”, le preferenze degli alimenti “a chilometro zero”, le coltivazioni “biologiche” senza uso di chimica, in sentenze ideologiche contro ogni innovazione scientifica nell’agro-industria. Nipote di contadino, figlio d’un perito agrario, Pascale racconta il miglioramento della resa del grano (ferma per secoli a una tonnellata per ettaro, sino alla metà del Novecento), smonta l’illusione del “tipico” e laicamente fa riflettere sul fatto che l’opera dell’uomo è sempre trasformazione e cultura.

Da governare con intelligenza e rispetto, dell’ambiente e degli altri uomini. Pensiero critico. Come quello di Roberto Finzi, bravo storico dell’economia, nelle pagine de “L’onesto porco. Storia di una diffamazione”, edito da Bompiani con una introduzione di Claudio Magris. L’animale è intelligente (si potrebbe leggere, con sincero divertimento, anche “Toby, memorie di un maialino sapiente” di Russell Potter per Einaudi). La sua carne dà un cibo eccellente. E così, con un apparato di citazioni che vanno dalla Bibbia all’Odissea, da Boccaccio a Giordano Bruno, da Erasmo da Rotterdam a Orwell, Finzi smonta la calunnia. Buono, il maiale.