Milano, 16 marzo 2014 - Può forse suonare strano, un titolo come «Il compagno Mussolini». E provocatorio, l’intento degli autori, Nicholas Farrell e Giancarlo Mazzuca, di porre in rilievo, della controversa mole d’attività del capo del fascismo, proprio la sua origine socialista. Eppure, dalle pagine brillanti del saggio, pubblicato da Rubbettino, emerge il rilievo delle radici dell’impegno politico di Mussolini: dai vertici del Psi e dalla direzione dell’”Avanti!” (dal dicembre 1912 all’ottobre 1914) alla rottura e alla fondazione de “Il Popolo d’Italia”. Passaggio spigoloso, che secondo i due autori si può riassumere così: “Dall’abbandono del socialismo internazionalista alla nascita del socialismo nazionalista (che poi diventò il fascismo)”.

La documentazione è puntigliosa. Le tesi, spesso, controcorrente, come nelle pagine in cui si sostiene che Mussolini non era antisemita, ma fu trascinato alla tremenda scelta delle leggi razziali dalla sudditanza alla Germania nazista. Un punto è fermo: “La continuità tra il socialismo di Mussolini e il suo fascismo e le affinità tra la rivoluzione fascista e le altre rivoluzioni del Novecento. Quindi, liquidare Mussolini e il fascismo come creature della borghesia è un nonsenso. La guerra di classe combattuta dal ribelle di Predappio era quella tra produttori e parassiti (di qualsiasi classe sociale): la borghesia - la parte parassitaria - era stata e sarebbe sempre stata il suo nemico”. Temi di aperta discussione. Che la natura del fascismo fosse composita, lo provano i differenti giudizi dei suoi contemporanei: dal fascismo come “autobiografia nella nazione” di Piero Gobetti alla “parentesi” e “malattia morale” di Benedetto Croce, dalla “reazione di classe estrema del capitalismo per difendersi” di Antonio Gramsci al “prodotto inevitabile degli antichi mali d’Italia” di Gaetano Salvemini.

Oggi, la storiografia si aggiorna, mettendo in risalto, per esempio, l’idea di un fascismo con caratteristiche di “religione politica” sostenuta dal “culto del Duce”, come nota Christopher Duggan in “Il popolo del Duce. Storia emotiva dell’Italia fascista”, edito da Laterza: un libro fondato su migliaia di lettere (auguri, raccomandazioni, inviti), diari personali, documenti riservati della polizia. C’è la costruzione del consenso, al culmine nel 1936. E il suo sbriciolamento, dopo l’alleanza subalterna con il nazismo e il precipitare della guerra. 

Ci sono, oltre, il Duce, figure popolarissime del regime, sino al mito, come documenta Giordano Bruno Guerri in “Italo Balbo”, edito da Bompiani, un volume sulle gesta d’un gerarca irregolare, asso dell’aviazione (trasvolò l’Atlantico, destando ammirazione negli Usa), buon gestore della Libia conquistata ed eroe di guerra, vittima a Tobruk del “fuoco amico”.E c’era, per il fascismo, anche un robusto consenso internazionale, come scrive Ennio Caretto in “Quando l’America si innamorò di Mussolini”, Editori Internazionali Riuniti. Forte di documenti inediti di fonte Usa, Caretto mostra l’apprezzamento di molti ambienti per un “presentabile autoritarismo democratico”, perfino da imitare (il presidente Franklin D. Roosvelt ne era molto preoccupato) e fa sua la conclusione di un grande storico come John Diggins. “L’ammirazione americana per l’Italia di Mussolini ci può aiutare ad analizzare il fascismo dentro di noi”.