Milano, 11 ottobre 2011 - Non vuole farsi notare, in fondo al quattrocentesco cencetto, carta di stracci di lino. Eppure, la firma di mano propria di Leonardo da Vinci produce l’effetto di una visione. L’unica firma finora conosciuta. Unica anche perché vergata in senso normale dal maestro, sempre sinistrorso nei suoi disordinati manoscritti e assolutamente disinteressato a firmare i suoi capolavori.

Un vero coup de cœur persino per l’esperto in conservazione del patrimonio librario e archivistico Luciano Sassi. Un cremonese che non si fa impressionare neppure dall’autografo lungo 16 cm dell’imperatore Carlo V: «Il mio lavoro - spiega - consiste nel restauro, manutenzione, condizionamento in scatole apposite, per prolungare la vita a un documento. Lo guardo, come un anatomopatologo, e vedo quel che gli altri non vedono».

Alle sue cure, l’Archivio di Stato di Milano ha affidato i Cimeli, la più preziosa, fragile memoria del passato. Questa volta ha visto l’eccezionalità di “una firma” proiettata nel Duemila, dove “la firma” è incantesimo sociale, nervatura portante del sistema economico e psicologico.

 

Nella cartella n.1, un foglio del genere definito “bruttarello” dagli archivisti. Danneggiato da un’infiltrazione acquosa. Staccato, ma parte integrante del contratto rogato a Milano dal notaio Antonio de Capitani, 25 aprile 1483, per realizzare una grande tavola d’altare raffigurante la Madonna, entro l’8 dicembre dell’anno successivo. Commissionata dal priore della Cappella della Concezione, nella chiesa (non più esistente) di san Francesco Grande, dei frati minori, a Leonardo e ai fratelli Evangelista e Giovanni Antonio de Predis, per un compenso di 800 lire. I dipintori dovranno provvedere a proprie spese le materie prime indicate nel capitolato, il foglio sciolto, che elenca minuziosamente i soggetti: la Vergine e Dio Padre vestiti in broccato d’oro (s’intende “fino”) e “azurlo tramarino”... Pigmenti costosi.

 

Le sottoscrizioni di tutti i contraenti sono “presumibilmente autografe”, si legge nel catalogo della mostra “Leonardo da Vinci. La vera immagine”, all’Archivio di Stato di Firenze (ottobre 2005-gennaio 2006), dove il documento era stato esposto. Dopo la sua scoperta nel 1910 da parte di Gerolamo Biscaro, era anche apparso in una mostra milanese del ‘39, ma solo come testimonianza storica di un momento significativo della carriera del pittore, approdato alla capitale degli Sforza. E Carlo Pedretti, forse il più sapiente leonardista, nel catalogo della mostra fiorentina si concentra soprattutto sull’aspetto “normale”, quindi inconsueto, della scrittura, rilanciando l’ovvia domanda: perché Leonardo scriveva a rovescio? Non è lui infatti a firmarsi nell’unica sua lettera oggi conosciuta, al cardinale Ippolito d’Este, 1507, ma un compiacente scriba, Agostino Vespucci, collaboratore di Machiavelli alla Segreteria Fiorentina. Firmare davanti a un notaio, invece, è una cosa seria.

“Io Lionardo da Vinci in tesstimonio ut supra scripsi”, rilegge la paleografa Alba Osimo, funzionario e docente alla Scuola annessa all’Archivio milanese, rilevando che chi scrive qui in volgare ha qualche difficoltà con il latino. Ipotesi più verosimile di quella che vorrebbe, in base ad altri appunti, Leonardo intenzionato a creare un rivoluzionario lessico mixato. Pare sufficiente che il nostro “uomo universale” sia artista, architetto, musico, scienziato, ingegnere, filosofo, inventore di giochi di corte e persino “mago prodigioso”. Mito sconfinato in un territorio irreale. La verità della sua gloria, non pianificata, s’indovina anche dalla sua negligenza nel lasciare la firma. Se quella sull’atto notarile del 1483 sia sicuramente autentica, hanno chiesto a Daniela Ferrari, direttore dell’Archivio di Stato di Mantova e perito grafologo, di verificarlo: «Sì, lo confermo, dopo averla messa a confronto con campioni di scrittura sinistrorsa, ingranditi specularmente».

 

Un ensemble di professionalità diverse, contagiate dall’entusiasmo di Sassi, ha collaborato perché Maria Barbara Bertini, direttore dell’Archivio di Stato di Milano, possa dichiarare: «Ancora più evidente si fa la consapevolezza dell’importanza del patrimonio che appartiene a tutti gli italiani, e noi conserviamo. Solo le filze notarili, dal XV secolo ai nostri giorni, sono 58.000. Tutti documenti importanti. Ma non c’è dubbio che la firma di Leonardo, testimonianza indiretta, a distanza di 500 anni, della sua persona, con tutto ciò che rappresenta per la cultura occidentale, può essere valorizzata».

Come? Intanto diventa ufficiale la disponibilità dell’istituzione, con scarse risorse per assolvere il suo compito, a stabilire sinergie e alleanze. Con un’altra grande firma? La risposta si trova, indirettamente, nel dipinto descritto dal documento: “la Vergine delle Rocce”. Due, forse tre, versioni originali, ovviamente non firmate, e tante copie. La grande rivoluzione che Leonardo porta qui in campo figurativo, con una composizione ovviamente diversa da quella commissionata nell’atto notarile, ma che «per la prima volta nell’arte cristiana - riconosce André Chastel - fa oscillare la pittura tra l’uomo e Dio», affascina i giovani colleghi. Al genio, in fondo, bastava stimolare l’immaginazione dei suoi contemporanei. E dei posteri.

 

La firma del genio sulle pagine di oggi, martedì 11 ottobre 2011 - de IL GIORNO, IL RESTO DEL CARLINO e  LA NAZIONE