Terrorismo, da Vimodrone all'Isis: foreign fighter condannato a 8 anni

Si tratta di un marocchino di 21 anni partito per la Siria nel 2015, dopo aver vissuto in una comunità di accoglienza per minori nel Milanese

Combattenti dell'Isis (Olycom)

Combattenti dell'Isis (Olycom)

Milano, 13 aprile 2017 -  La Corte d'Assise di Milano ha condannato a 8 anni di carcere Monsef El Mkhayar, presunto foreign fighter marocchino di 21 anni partito per la Siria nel 2015, dopo aver vissuto in una comunità di accoglienza per minori nel Milanese, e imputato per terrorismo internazionale. 

L'impianto accusatorio del pm di Milano, Piero Basilone, ha retto davanti ai giudici della Corte d'Assise che hanno accolto la pena chiesta dal magistrato durante la requisitoria. Monsef, 21 anni, risulta latitante da più di due anni: nel gennaio 2015 il giovane, fino al quel momento ospitato nella comunità Kairos di Vimodrone, paese alle porte di Milano, fuggì dal centro, volò in Turchia e da lì raggiunse la Siria per unirsi alla milizie del Califfato insieme all'amico e coetaneo Tarik Aboulala, poi morto in combattimento. Il giovane, secondo quanto emerso dalle indagini condotte dalla sezione antiterrorismo della Digos e coordinate dal pm Basilone, si sarebbe radicalizzato all'estremismo islamico in carcere, in seguito a un arresto del 2010 per una vicenda di droga. Rientrò nella comunità di Vimodrone dopo tre anni di detenzione e, convinto di essere diventato un "messaggero di Allah", iniziò a frequentare assiduamente la moschea di via Padova, cercando di indottrinare gli altri ospiti del centro.

Anche una volta approdato in territorio siriano Monsef avrebbe continuato a sollecitare, via messaggio o attraverso i social network, amici e conoscenti ad arruolarsi nell'Isis. E chi si rifiutava di raggiungerlo e rispondeva in maniera negativa, veniva minacciato di pesanti ritorsioni e in certi casi anche di morte. E' il caso di un giovane di origine marocchina destinatario di un messaggio spedito da Tarik, il giovane marocchino andato in Siria insieme a Monsef, nel dicembre 2015, subito dopo gli attentati di Parigi: "Quando arrivo là ti taglio la testa. Hai visto Francia, Francia".  Monsef non si sarebbe limitato a un'azione di propaganda e indottrinamento. Secondo il pm Basilone, che lo ha sottolineato nel corso della sua requisitoria, le indagini hanno accertato la sua "piena adesione" ai progetti terroristici dello Stato Islamico e la sua "partecipazione ai combattimenti" a fianco dei miliziani dell'Isis. Dal suo profilo Facebook manifestava inoltre l'intenzione di compiere un attentato facendosi esplodere. Rischio, questo, che secondo il gip Paolo Guidi, firmatario dell'ordine di arresto disposto quando Monsef era già da alcuni mesi in Siria, "sarebbe altamente probabile" se decidesse di rientrare in Italia.

Le versioni fornite dai diversi testimoni ascoltati nel corso del processo milanese sono state tutte concordi. Unica voce fuori dal coro è stata quella della zia, che in una delle scorse udienze ha descritto il nipote come una persona esasperata da due anni di guerra. Durante la sua deposizione in aula, la donna ha riferito di essere stata contattata telefonicamente nei mesi scorsi dal nipote che le avrebbe espresso chiaramente la sua volontà di tagliare ogni legame con lo Stato Islamico ("Non ce la faccio più a vedere gente sgozzata, teste mozzate e tutto questo sangue. Voglio tornare in Italia, voglio uscire da qui e scappare dalla guerra perchè non ho trovato quello che cercavo"). Dopo la testimonianza della donna, i contatti tra i familiari di Monsef e gli inquirenti della Digos si sono bruscamente interrotti: dimostrazione, probabilmente, del suo desiderio di dissociarsi dall'Isis per fuggire dalla Siria, ma anche dell'intenzione dei suoi parenti di "proteggerlo" da eventuali controlli e intercettazioni. Perché, una volta rimesso piede in territorio italiano, Monsef sarebbe subito arrestato. E, scontati gli 8 anni di carcere in Italia, sarebbe immediatamente espulso, così come decretato oggi dai giudici della Corte d'Assise di Milano. E' perciò molto più probabile (ma è solo un'ipotesi investigativa ancora tutta da verificare) che il giovane intenda recarsi in un paese del Nord Europa insieme alla moglie, una donna siriana sposata nei territori del Califfato, e alla bambina avuta da lei, utilizzando documenti falsi per rendersi irrintracciabile alle autorità.  

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