Pedemontana, chiesto il fallimento. Ma la società resiste: i soldi ci sono

Mossa della Procura di Milano. Nubi sull’opera che costa 4,5 miliardi

Pedemontana

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Milano, 28 giugno 2017 - Un fulmine, ma senza cielo sereno. La Procura di Milano anticipa i tempi e chiede al giudice il fallimento di Pedemontana. Un provvedimento improvviso, ma non inaudito per la situazione di bilancio dell’azienda che gestisce il tratto di autostrada già aperto e – soprattutto – ha in pancia il progetto da quattro miliardi di portare il nastro d’asfalto dalla Brianza alla Bergamasca. Soldi che l’azienda sta cercando, denaro che ancora non c’è, mentre la sopravvivenza è assicurata dai prestiti ponte della Regione. Che la situazione dei conti fosse tutt’altro che buona, lo aveva detto lo stesso Antonio Di Pietro, presidente dimissionario, presentando il bilancio del 2016 all’approvazione dell’assemblea dei soci. «Qualora entro il 31 gennaio del 2018 - aveva scritto l’ex pm nella sua relazione – non intervenga la proroga del prestito ponte, non sarà possibile assicurare la continuità aziendale».

E proprio in queste due parole, continuità aziendale, sta il cuore della questione che si è aperta in Tribunale. Tradotto dal gergo delle banche, significa avere i mezzi per continuare a lavorare. Secondo la società, oggi guidata dall’ex colonnello della Finanza ed ex manager Olivetti Federico Maurizio d’Andrea, i presupposti ci sono. Per il trio dei pm Roberto Pellicano, Giovanni Polizzi e Paolo Filippini, che hanno chiesto il fallimento, no. D’Andrea ricorda che «la scelta della Procura si basa su una perizia sul bilancio del 2015, mentre nel frattempo è stato approvato un esercizio nuovo, quello del 2016, in continuità aziendale - appunto - con quello precedente». Insomma, ci sarebbe «una dotazione di liquidità adeguata» e «nessun creditore di Pedemontana ha mai manifestato criticità». Come a dire: tutto a posto. I sostituti di Milano, però, non ci credono e l’udienza per decidere il destino della grande azienda regionale controllata da Serravalle è fissato il 24 luglio. Sarà lì che si vedranno i conti e si parlerà di soldi. Il 2015, per la società, si era chiuso con un rosso da 22,6 milioni di euro, scesi a 7,8 nel 2016, il primo anno in cui per dodici mesi erano stati incassati i pedaggi (fra i più cari d’Italia) del tratto aperto alle auto. Ma si sperava di avere più tempo, in vista della fine di gennaio del prossimo anno, per risolvere - come anticipato da Di Pietro - la questione in due modi: o trovare un altro prestito ponte, o riuscire a convincere le banche private a partecipare alla costruzione dei tratti mancanti dell’autostrada.

I cantieri dell’opera da 4 miliardi e mezzo, infatti, si sono arrestati in Brianza, dopo il taglio del nastro del tratto Lomazzo-Lentate e dello svincolo di Lazzate. La situazione difficile è proprio quella dei finanziamenti. Un miliardo e duecento milioni di fondi pubblici sono stati spesi per completare un terzo dei lavori. Roma - come ribadito dal ministro Graziano Delrio - «non ci metterà più un euro». Per arrivare con l’asfalto fino alla Bergamasca servono oltre 3 miliardi. Se non si trovano, si chiude. La caccia a soci interessati a investire capitali in cambio dei pedaggi continua forsennata. Si sta cercando di scrivere rapidamente un bando per la gara dedicata ai privati, il cosiddetto project financing, e Palazzo Lombardia ha previsto un fondo di garanzia da 450 milioni. Quelli che in teoria consentirebbero di «allettare» le banche a partecipare all’impresa. Ma gli istituti di credito chiedono una garanzia da 1,2 miliardi, perché non credono fino in fondo che l’autostrada possa generare utili, visto che il numero delle auto in transito è sotto alle previsioni. L'assemblea dei soci, dopo un tentativo di ricapitalizzare andato a vuoto, aveva previsto di prorogare fino al fatidico 31 gennaio 2018 i termini per trovare qualcuno che inietti contanti nell’azienda. Da qui la certezza di avere più tempo, che invece la Procura ha deciso di non concedere più.

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