L’esecuzione del boss secessionista: nove anni dopo è tutto da rifare

’Ndrangheta, la Cassazione annulla la condanna: "Niente prove"

La scena del crimine

La scena del crimine

Milano, 24 ottobre 2017 - San Vittore Olona, 14 luglio 2008. Carmelo Novella è seduto nel cortile interno del bar «Reduci e combattenti» insieme ad altre persone. I due sicari Antonino Belnome e Michael Panajia vanno dritti al bancone e ordinano caffè e cappuccino. Poi si dirigono verso il bersaglio e fanno fuoco: «Al petto e alla faccia». A terra resta il boss secessionista, quello che sognava l’autonomia delle ’ndrine trapiantate in Lombardia dalla casa madre in Calabria. Un’esecuzione spartiacque nella storia dei clan al Nord. Un’esecuzione decisa al Sud. Da chi? Nel gennaio 2015, a sette anni e mezzo dai fatti, i carabinieri del Ros di Milano chiudono definitivamente il cerchio, individuando il terzo presunto mandante: fu Cosimo Leuzzi, insieme a Andrea Ruga e Vincenzo Gallace, a ordinare l’omicidio del «ribelle», la sintesi dell’accusa. Tutti e tre inchiodati dalle dichiarazioni di Belnome e Panajia: il secondo, in particolare, tira in ballo Leuzzi e cita la frase «Senti, vedi che a Milano c’è un lavoro da fare, te la senti di darci una mano? Ci dai lo disponibilità?» che il capo della locale della reggina Stignano avrebbe usato per reclutarlo. Leuzzi viene condannato in primo grado e in appello a 30 anni. Finita?

No, perché la Cassazione ha rimesso tutto in discussione: sentenza annullata con rinvio ad altra sezione della Corte d’Assise d’appello. Una decisione così giustificata: «Carenza motivazionale». Come si legge nel dispositivo, reso noto il 20 ottobre, i giudici di secondo grado non avrebbero esaminato fino in fondo le eccezioni della difesa di Leuzzi. Una in particolare: «L’appartenenza a un’associazione, anche con posizione verticistica, non implica l’attribuzione automatica dei reati-fine alla stessa riconducibili, essendo necessaria di volta in volta la prova della partecipazione o alla fase esecutiva o alla fase ideativa e organizzativa degli stessi». Senza contare, contestano gli avvocati del 63enne, «che i dichiaranti (Belnome e Panajia, ndr) non avrebbero affermato di aver ricevuto il mandato omicidiario specifico dal Leuzzi e nulla avrebbero detto in ordine a un ruolo attivo dello stesso nella vicenda delittuosa, affermando il Belnome di averlo conosciuto solo dopo l’omicidio e il Panajia di aver dato al medesimo la sua disponibilità di massima per un omicidio senza però aver avuto mai con lo stesso un contatto preliminare per l’individuazione della vittima».

Per la Suprema Corte, in effetti, i giudici di secondo grado hanno trascurato «come il coinvolgimento» da parte di Belnome «dell’imputato abbia fatto proprio leva sul ruolo verticistico di quest’ultimo, che non lo poteva far ritenere estraneo alla pianificazione omicidiaria, ammettendo lo stesso Belnome di aver conosciuto Leuzzi solo dopo l’omicidio, in occasione dei festeggiamenti in Calabria (a champagne e pasticcini, ndr) per il buon esito del delitto». Non solo. Sarebbe stato anche sottovalutato il fatto «che il Panajia, pur riferendo di una sua generica messa a disposizione del Leuzzi per un “lavoro” da fare a Milano, abbia poi riferito di essere stato effettivamente contattato per l’omicidio dal Ruga, che lo presentava al Belnome». Tutto da rivalutare, insomma. Nel nuovo processo d’appello.

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