"Ho pagato, poi ho detto basta". Ma ribellarsi alle cosche costa caro

Imprese assediate, storia di Maria Grazia Trotti: si sono vendicati

Maria Grazia Trotti

Maria Grazia Trotti

Milano, 22 novembre 2017 - Ha subìto per un anno la morsa del clan Valle Lampada, che inchieste giudiziarie degli anni successivi hanno inchiodato come mafioso. Senza raccontare niente a nessuno, per proteggere la sua famiglia dal tunnel in cui era precipitata, Maria Grazia Trotti ha pagato interessi del 400% su un prestito di 20 milioni di lire di allora, offertole per sostenere le spese di riparazione dei danni causati da una rapina da quello che sembrava un cliente abituale della sua gioielleria a Vigevano e invece si è rilevato un portavoce della ‘ndrina che aveva messo radici proprio nella zona sud di Milano.

«Dopo un anno ho comunicato loro che non ce la facevo più a pagare e loro sono passati alle minacce a mio marito e mio figlio», racconta Trotti, 65 anni e oggi in pensione. Allora è scattata la molla: «Sono uscita dal negozio e sono andata a denunciare». Era il gennaio del 1992. Un anno prima erano incominciati i suoi problemi, quando un furgone aveva sfondato la vetrina della sua gioielleria. Rapina pilotata, visto che a bordo c’era un parente del clan. Anche la banca dove Trotti si era rivolta per cercare un prestito si è rivelata poi dalle inchieste contaminata dalla mala. Gli unici soldi le sono stati offerti da un presunto cliente che ha gettato presto la maschera. «E dire che io l’usura l’avevo incontrata solo nei libri», commenta amara. Ci sono voluti due anni perché le sentenze condannassero definitivamente l’estorsione di un clan che ha continuato ad avvelenare l’economia locale del Milanese. Nel 2014 la Corte di Cassazione ha riconosciuto il mostro che Trotti aveva visto in faccia vent’anni prima: i Valle sono «mafiosi».

Quella denuncia è costata alla donna la gioielleria, che la famiglia le aveva aperto a Vigevano, due anni di processo in cui «mi sono dovuta costituire da sola, perché non potevo permettermi un avvocato». Ma non ha intaccato la sua forza d’animo: «L’unica soluzione è la denuncia per ritrovare la propria dignità». RIimasta senza un lavoro, «mi sono iscritta a medicina, ho fatto un corso di laurea triennale e ho iniziato a lavorare nella sanità», racconta. «Oggi - aggiunge - se ne parla di più, è cambiato anche il contesto legislativo, però non è comunque facile perché dall’infiltrazione siamo passati alla stabilizzazione. È qualcosa di più subdolo, per cui è ancora più difficile fare una denuncia». 

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