"Potevo fare la fine di Adele. Contro la droga lo Stato si è arreso"

A 16 anni uccisa dall’ecstasy, Giulia racconta: io salva per miracolo

Giorgia Benusiglio (Newpress)

Giorgia Benusiglio (Newpress)

Silenzio: questo adesso vuole Paolo De Vincenzi, padre di Adele, la ragazzina di 16 anni morta per strada a Genova a causa di una pasticca di ecstasy presa a casa di un amico assieme al suo fidanzato e ad una coetanea prima di tuffarsi nella movida genovese. Silenzio. Paolo De Vincenzi lo ha chiesto con calma e con determinazione, sconvolto da quel dolore terribile che può provare solo un genitore che sopravvive al figlio. «La notizia è stata data, adesso chiediamo rispetto per il dolore e per la privacy. Chiediamo silenzio». Un silenzio che rispettano gli inquirenti. Mentre decidono di ascoltare De Vincenzi oggi, la polizia parte per la periferia genovese con in mano un decreto di perquisizione a carico di un ragazzo sudamericano indicato dall’amico come il pusher che avrebbe ceduto materialmente la droga al fidanzato e all’amico di Adele. Una perquisizione nell’appartamento di Busalla che non è andata a buon fine: in casa del ragazzo non c’erano stupefacenti ma lui, 20 anni di origini ecuadoriane. È comunque indagato per gli stessi reati che hanno portato in carcere il fidanzato di Adele Sergio Bernardin, 21 anni, e l’amico Gabriele Rigotti, 19 anni: spaccio aggravato e morte come conseguenza di altro reato. La polizia non si ferma: mentre la Mobile  è a Busalla, altri agenti visionano i filmati  della videosorveglianza cittadina per capire se  Adele, che si è accasciata per strada in via San Vincenzo, avrebbe potuto essere soccorsa  prima. Il netturbino che ha visto Adele  stare male ha infatti detto che attorno aveva «amici che cercavano di aiutarla ma sembravano confusi».

Milano, 31 luglio 2017 - Nell'ultimo anno ai suoi incontri nelle scuole hanno preso parte 85mila studenti. Una pagina Facebook. Un libro, Vuoi trasgredire? Non farti. Un docufilm, Giorgia vive. Giorgia Benusiglio, milanese, una vita recuperata dopo che una mezza pasticca di ecstasy, ingoiata in una discoteca di Desenzano del Garda, la stava spegnendo con una epatite tossico-fulminante. Era una sera di ottobre del 1999. Una vita dedicata, da allora, alla prevenzione contro le droghe.  Giorgia, che segnali le vengono dal mondo della scuola? «Si incomincia a capire. La prima forma di spaccio avviene nella scuola, primo luogo di aggregazione. Si è capito che si deve intervenire. Quest’anno, oltre agli incontri che ho fatto, sono stata costretta a dire di no ad almeno altre quaranta richieste. La cosa triste, invece, è che per quanto fai non tutte le scuole manifestano lo stesso interesse. L’attenzione è migliorata rispetto a dieci, quindici anni fa, ma è altrettanto vero che ci sono scuole e anche genitori che sono indietro, che non vogliono vedere». Ragazzi, genitori, dirigenza scolastica. Che richiesta di informazione arriva? «Arriva da tutte e tre queste fasce. La dirigenza è interessata. Sono in contatto con Gabriele Toccafondi, sottosegretario del Miur, che ritiene fondamentale la prevenzione. I ragazzi, quando fanno autogestione, mi contattano, mi chiedono di presenziare. L’ultimo incontro è stato in un cinema a Firenze, con 900 studenti. Lo stesso per i genitori. Devo fare però un distinguo. Ci sono genitori interessati all’incontro e altri che invece lo contrastano perché pensano che è troppo presto per parlare di droga ai figli oppure che parlarne potrebbe invogliare i ragazzi a farne uso. Grossa sciocchezza. Oggi, con internet, i ragazzi arrivano ovunque. Meglio una informazione corretta. Un esempio. Tutti sanno che la droga fa male. Pochi sanno che basta anche solo una pasticca per andare all’altro mondo. Chiedo sempre: prima di conoscere la mia storia, sapevate che per una pasticca si può morire? Se su seicento alzano la mano in dieci o venti, è tanto».  Allora si deve lavorare sui genitori?  «Sono il problema più grande. Ecco perché ho iniziato a fare anche incontri serali aperti alla cittadinanza. Purtroppo molti genitori credono che il drogato sia sempre il figlio degli altri». E la politica, lo Stato? «Il problema è lo Stato. Si sta disinteressando. Sono stati fatti tagli in maniera assurda. È come se lo Stato si fosse arreso. I ragazzi si drogano? Pace. Al contrario, l’interesse dovrebbe essere comune. I figli sono figli di tutti. Sono i cittadini di domani». Cos’altro ancora sarebbe necessario? «Più continuità nell’attenzione. Oggi parliamo della ragazza di Genova. Ma quanti ne sono morti nell’arco di un anno? Un ragazzo aveva assunto ecstasy in discoteca. In auto sono andati avanti con la coca. Uno è andato alle undici del mattino a vedere come stava l’amico e lo ha trovato morto. Ho letto un articolo, poi più nulla. Una ragazzina di 14 anni è collassata in classe. Tre ragazzi di Bergamo sono stati male, uno è finito in coma. Se n’è più saputo qualcosa?». Sarebbe utile una legge?  «Una legge può aiutare. Ma per primo aiuta il buonsenso, che dice di fare prevenzione, di non pensare che i ragazzi sappiano già tutto. Sbagliatissimo. I giovani non vanno sui portali antidroga. Vanno sui forum scritti da loro coetanei che descrivono le esperienze vissute con le varie sostanze. E sparano cavolate. Parlano anche del mio caso, dicono che è impossibile finire in coma per mezza pasticca. Così i ragazzi si creano l’alibi per continuare a fare uso di droghe».  E oltre alla prevenzione?  «Prima ancora è fondamentale lavorare sull’autostima, la fiducia in se stesso. Un ragazzo con poca stima di sé è più facile che segua il branco e faccia scelte che altrimenti non farebbe. Invece le fa per non essere emarginato».

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