Sicurezza sui treni: "Io aggredito 10 anni fa. Botte e indifferenza, tutto uguale"

Il racconto di un capotreno: "Anch’io pestato mentre gli altri guardavano"

Loris Perin

Loris Perin

Milano, 4 ottobre 2017 -  Violenza su un ferroviere, in treno. L’indifferenza dei passeggeri. Le ha sperimentate entrambe Loris Perin, 60 anni, in ferrovia dal 1981, capotreno di Ferrovienord Milano, in pensione da un paio di mesi. La sera del 21 novembre del 2008 viene aggredito e colpito con calci e pugni, per diversi minuti, da tre nordafricani alla stazione di Venegono Superiore. Una trentina di passeggeri assistono senza intervenire. «Vi è piaciuto lo spettacolo?», domanda il capotreno, rialzandosi dolorante.

Quasi dieci anni dopo il capotreno Perin commenta con amarezza la notizia del capotreno picchiato e rapinato da un senegalese (poi arrestato dai carabinieri) sulla tratta Brescia-Cremona. I viaggiatori hanno assistito alla scena senza muovere un dito. Alcuni l’hanno ripresa in un video, poi messo online.

Signor Perin, la storia si ripete. Violenza e indifferenza.

«Siamo punto e a capo. Dovrei fare il solito discorso che è inevitabile che la violenza che circola nella società entri anche nei treni. Discorso vero, purtroppo. Non è una questione di pelle, di etnia. Quello che è venuto a mancare in questi anni è il rispetto per la persona altrui. C’è la sensazione che tutto sia permesso. Un senso di impunità. Vedo due rimedi: il carcere, anche solo un assaggio, ma che sia carcere vero, e la certezza della pena. Quelli che hanno quasi staccato un braccio al mio collega a colpi di machete, si sono visti ridurre la pena in appello. Cosa avevano fatto per meritare lo sconto? Niente. Eppure l’hanno avuto».

Da cosa nasce l’indifferenze dei viagggiatori? Questione di paura?

«Non è solo paura. Uno che ha paura scappa, si mette al sicuro. Qui hanno anche filmato l’aggressione. La verità è che oggi molti si sentono coinvolti dalla violenza solo se questa li tocca direttamente. Allora sì, tutti pronti a chiedere giustizia. Se le vittime sono gli altri, la cosa sembra non riguardare. I viaggiatori dovrebbero capire che la sicurezza del personale è anche la loro sicurezza. La stessa cosa, non due cose diverse».

Cosa le ha lasciato la brutta avventura di quella sera?

«Non dico che mi abbia cambiato la vita, ma certamente mi ha molto segnato. Le botte mi hanno fatto male, il menefreghismo mentre venivo picchiato mi ha ferito. Sono diventato razzista al contrario. Negli ultimi tempi di lavoro, quando un cliente italiano mi chiedeva ‘Se mi aggrediscono, tu cosa fai?’, rispondevo: ‘Aspetto che finiscano di picchiarti e poi vengo ad aiutarti’. Non era vero. Conoscendomi, non sarei riuscito a stare fermo, sarei intervenuto. Però la mia riposta era sintomatica. Una risposta di indifferenza dopo avere sperimentato sulla mia pelle l’indifferenza altrui».

Rimedi?

«Il rimedio di base sarebbe quello di recuperare solidarietà e rispetto per l’altro. Dal punto di vista pratico, una buona cosa sarebbe quella di tornare a camminare in due sul treno. Una volta c’erano il capotreno e il cosiddetto controllore. Oggi c’è solo l’agente unico, il capotreno che si occupa di tutto, compreso il controllo dei biglietti. Temo che anche questa figura sia destinata a sparire, per essere sostituita da una specie di impiegato viaggiante addetto al controllo dei biglietti».

Dal treno è tecnicamente possibile per il capotreno avvertire in caso di pericolo?

«Lo è. Il capotreno lancia l’allarme alla sala operativa e da lì viene attivata la richiesta di intervento immediato alle forze dell’ordine».

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