Milano, 12 aprile 2014 - Il corpo era disteso sul pavimento, perfettamente ricomposto: le braccia lungo i fianchi, le gambe unite, un rivolo di sangue rappreso sul mento, il segno di un colpo secco sulla fronte, come un marchio di forma tondeggiante. Il volto già livido davanti alla porta dell’ingresso, i piedi che sporgevano nel disimpegno verso il salotto. A Maria, l’inquilina del primo piano, è bastato spingere appena la maniglia per entrare. E sentire l’odore di morte. E vedere il cadavere già freddo di Anna Di Vita che se ne stava abbandonato lì da chissà quanti giorni. Almeno tre secondo il medico legale, probabilmente di più. «Non la incontravamo da una settimana». Omicidio? Disgrazia? Rapina sfuggita di mano? Indaga la Squadra mobile.

Inizia così, alle 10,30 di giovedì, il giallo di via dei Giaggioli, civico 9, quartiere Lorenteggio: schiera di palazzoni popolari costruiti alla fine dei ’50, divisi da cortili alberati. Anna Di Vita aveva 82 anni, 600 euro di pensione al mese, un passato da sarta nubile, un bastone per camminare dopo la protesi all’anca e il cuore da tenere sempre sotto controllo. Sola, solissima. Niente figli, pochi parenti. Un fratello novantenne e un nipote in provincia di Pistoia, una sorella a Milano. «Non la sento da anni», diceva lei. Che nel palazzo era arrivata nel 2004 e da allora non si era mai fatta degli amici. Alle 10,30 di giovedì Anna avrebbe dovuto essere all’ospedale San Carlo: una volta al mese si sottoponeva a una terapia con gli anticoagulanti. L’accompagnavano i servizi sociali di via Gonin, a pochi chilometri da casa sua. Però quella mattina lei non si presenta all’appuntamento e non risponde al telefono. L’assistente chiede aiuto a Maria, la vicina, che sale al secondo piano. Bussa, chiama. Nessuna risposta. E basta a quel punto una leggerissima pressione sulla maniglia per aprire la porta e vedere ciò che le è apparso subito chiaro: «Morta».

L’appartamento: 60 metri quadrati. Il disimpegno, a destra la camera da letto, a sinistra un bagno e un cucinino, davanti un salotto. Il cadavere di Anna è lì, nel crocevia di stanze appena dopo l’ingresso. La casa è all’aria. Carte e documenti a terra, cofanetti rovesciati, cassetti aperti. Che fosse disordinata lo escludono tutti i pochi che avevano avuto accesso al bilocale. «No, non c’era mai un capello fuori posto lì dentro», assicura il falegname della porta accanto che qualche mese fa le aveva fatto dei lavoretti in cucina. E allora quella confusione innaturale fa pensare a un’incursione. Forse un ladro, forse un truffatore. Forse qualcuno che Anna conosceva e di cui si fidava. Un furto? È però difficile stabilire se manchi qualcosa all’appello, a parte un vecchio televisore di cui gli investigatori hanno trovato solo il telecomando ma nessuna traccia dell’apparecchio. Impossibile stabilire se sia stato o meno rubato. E poi? L’autopsia non chiarisce come sia arrivata la morte per lei. Sul suo corpo c’è solo quel segno impresso in fronte che secondo gli inquirenti potrebbe essere compatibile con il colpo della porta sbattuta in piena faccia — la chiave sarà ritrovata nella toppa, all’interno — aperta violentemente da chi voleva entrare in casa sua. Un colpo non fatale, comunque, stando all’esame autoptico. Quanti giorni fa? Potrebbero essere anche sette. E qualcuno nel palazzo aveva sì notato la sua assenza, in tutto questo tempo. Ma nessuno con interesse sufficiente per bussare alla sua porta. E accorgersi di quella fine.

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