Milano, 14 marzo 2014 - Una presenza discreta, ma determinante. Dietro le immagini di Papa Francesco, che scuote la polvere della Chiesa e riceve l’abbraccio dei fedeli, appena affacciato dalla loggia di San Pietro, c’è lo spirito di rinnovamento del nuovo Pontefice, ma anche la sapienza tecnica di una regìa televisiva, una capacità di costruire immagini e veicolare contenuti in modo naturale eppure altamente professionale.

Un lavoro che non determina, ma accompagna fedelmente le parole e i gesti del Papa, trasferendone l’emozione a milioni di persone in tutto il mondo. Dietro quelle macchine sempre più tecnologiche c’è un milanese: monsignor Dario Viganò, 52 anni. Nato a Rio, in Brasile, ma ambrosiano per formazione, ordinazione e cultura.

È a lui, a capo del Centro televisivo vaticano dal 22 gennaio dello scorso anno, che è toccato organizzare la narrazione di un evento mai documentato dalle immagini della storia del cattolicesimo: la transizione fra un Papa dimissionario e un nuovo Pontefice, eletto dal Conclave giusto un anno fa. Nelle parole di Viganò, nel suo tono, non si avverte la diplomatica levigatura di chi è abituato a non scivolare sui pavimenti troppo lucidi della Curia, ma l’entusiasmo e la passione competente di un tecnico di solida cultura, con un alleato in più, «la Provvidenza», come lui stesso racconta.

Monsignore, quella che lei guida non è solo una televisione...
«No, in effetti — sorride —. Il Centro televisivo vaticano è nato nell’83. In esclusiva raccontiamo il Papa, il suo magistero. In esclusiva seguiamo i suoi viaggi. Abbiamo accordi con network di tutto il mondo, a cui forniamo innagini. Veicoliamo contenuti con crescente livello tecnologico e qualitativo. Siamo una televisione, ma non solo».

Sarebbe bello capire da un tecnico, che è anche sacerdote, cosa è cambiato nel vostro racconto con la transizione fra Papa Benedetto e Papa Francesco...
«È stato un grande cambiamento narrativo, che è iniziato già nell’ultima fase del pontificato di Benedetto XVI. Dalla regìa con momenti preordinati, movimenti di macchina fissi, si è arrivati alla svolta segnata dalla rinuncia del Pontefice. Fino ad allora un Concistoro, un Angelus, avevano uno svolgimento e una narrazione codificata, scandita da un programma prestabilito e formalizzato. Sapere che un pontificato finirà esattamente alle 20 del 28 febbraio, invece, non è come essere colti di sorpresa dalla morte di un Papa. Dover raccontare questo passaggio è stata una sfida, una responsabilità».

E come avete fatto?
«Abbiamo cercato di far emergere nel pontificato di Benedetto, pur tra tante difficoltà, la carica umana e di raffinatezza intellettuale del Papa emerito. Abbiamo raccontato la sua “traslazione”, il suo viaggio verso Castel Gandolfo con una cifra intima, pur senza intrusioni. Scelte di ottiche particolari hanno accompagnato l’uscita dalla casa pontificia, con le memores e monsignor Georg, commosso, poi abbiamo documentato il viaggio in elicottero, immagine destinata ad avere anche un grande valore documentale, fino all’arrivo a destinazione, nella residenza pontificia. Lì una telecamera attendeva il Papa emerito all’interno della stanza. Così che, in qualche modo, fossero i fedeli ad accoglierlo in casa».

Una porta che si apre e non un uscio che si chiude alle spalle di Benedetto. E Papa Francesco?
«Nel Conclave abbiamo usato tecniche nuove, strumenti cinematografici, più che televisivi: bracci e ottiche speciali. Papa Francesco non lo conoscevamo, dovevamo immaginarlo... Ma la Provvidenza ci ha accompagnato. Lui stesso ci ha guidato, nel suo rapporto con i fedeli. Affacciato alla loggia, lo abbiamo ripreso dalla piazza, ma anche dalle spalle, con una sorta di controcampo. È stato come raccontare l’incontro di due sguardi. È iniziato tutto così».

Lei è milanese. Conosce bene la realtà della Chiesa ambrosiana, che da sempre conserva una sua tipicità nella Chiesa universale. Quali punti di contatto trova fra la tradizione lombarda e la svolta di Papa Bergoglio?
«L’elezione di Francesco cade a cinquant’anni dalla Primavera dello Spirito. A meno di 100 giorni dall’inizio del suo Pontificato, Giovanni XXIII, nella basilica di San Paolo, annunciò il Concilio. Era il 1959. A Roma, l’intenzione del Papa fu accolta con ritrosia: l’Osservatore Romano non scrisse neppure una riga. La Civiltà Cattolica (rivista dei Gesuiti, ndr) riportò uno scarno comunicato. A Milano, invece, l’arcivescovo Montini, futuro Paolo VI, in un’omelia in Duomo parlò subito di un “ripensamento della Chiesa mondiale”. Lo spirito conciliare è connaturato a quello della Chiesa ambrosiana: l’idea è che il popolo di Dio segna la storia della Chiesa. E quella ambrosiana è una Chiesa di popolo e non elitaria come, ad esempio, quella francese».

E poi il Papa si è presentato da subito come vescovo. Milano, in fondo, ha una lunga tradizione di grandi vescovi...
«Sì. Certo, ma soprattutto nell’impostazione di Bergoglio c’è un forte dialogo con gli intellettuali, ma anche un radicamento nella pastorale, nella spiegazione della Parola di Dio, per quello che dice a noi, oggi, nel presente.
Ed è la cifra anche della Chiesa ambrosiana, fortemente attiva nella società. Sobria e pragmatica, fatta anche di volontariato, partecipazione, iniziative di carità».

E poi Bergoglio è un gesuita, come un grande arcivescovo milanese.
«Non a caso Papa Francesco ha parlato di Carlo Maria Martini come di un grande profeta».