Milano, 1 febbraio 2014 - “A Milano bisogna aprire le porte e curiosare all’interno”. Ne è convinto l’attore Paolo Rossi che per anni ha continuato a pensare di non capire questa città. E invece un giorno…
 

Cos’era accaduto?
Ero sui Navigli. Ho aperto per caso il portoncino di un palazzo e nel cortile interno c’era un gruppo che suonava jazz contornato da tanti spettatori. Eppure all’esterno non si sentiva nulla. Allora ho pensato: diavolo di una Milano, vuoi essere scoperta, sembra che qui non ci sia niente invece c’è molto.

Quando è arrivato in città?
A 18 anni, al seguito di mio padre che fu assunto alla Solvay. Abitavamo in via Veniero, vicino a Piazzale Lotto, sopra il bar che era il punto di ritrovo dei giocatori e dello staff dell’Inter. Aspettavano lì il pullman che li portava alla Pinetina. In quella casa si trasferirono anche mia madre e mia sorella Eleonora. Venivamo da Ferrara e l’impatto con Milano fu scioccante. Tutto era troppo veloce. Io avevo il diploma di perito chimico e sembrava naturale che andassi a lavorare in fabbrica.  Invece cominciai a studiare Scienze politiche all’Università. Poi sbagliai a spedire la cartolina per il rinvio e dovetti partire per il militare.

Bel periodo?
Tremendo. Mi congedai anche dopo i canonici 12 mesi per via di alcune punizioni che dovevo scontare. Finii a Torino. Avevo un Capitano che faceva di cognome Uncino, per cui ogni volta che pronunciavano il suo nome mi mettevo a ridere. E giù giorni di consegna. Finito quel periodo siamo diventati amici. E viene a vedere i miei spettacoli.

Approdò subito dopo al mondo della recitazione?
Sì, una volta tornato a Milano. Volevo seguire le orme di mio nonno attore Armando Rossi. Cominciai nella compagnia di marionette di Gianni e Cosetta Colla.  Nel 1978 arrivò la chiamata di Dario Fo per l’ “Histoire du soldat” di Igor Stravinskij alla Scala. Poi passai all’Elfo. Intanto lavoravo anche nei locali. Avevo puntato sui monologhi, me li scrivevo anche io e li facevo ovunque. Mi chiamavano il Lenny Bruce dei Navigli. Milano allora pullulava di locali notturni. Ogni sera dopo il teatro scappavo a lavorare nei night.

E poi il Derby.
Quanti ricordi. Ecco la mia è la Milano dei Maestri, con la m maiuscola. Ne ho incontrati tanti. Erano gli ultimi anni di quello storico locale, prima della chiusura. Ricordo Teo Teocoli, era brusco con me, ma perché voleva scuotermi. Ogni sera, prima di entrare in scena, vomitavo. Ero serio e silenzioso, sempre in disparte. Teo mi diceva: “Cosa fai lì seduto, vieni qui, come te la meni”. Mi ha insegnato a stemperare le preoccupazioni e a “fregarmene”. Ho cominciato a sentirmi un gigante. Da allora quando sono sul palco credo di essere alto 1 metro e 90. Una sera durante un monologo, un uomo in prima fila circondato da due bellone non rideva. Gli ho chiesto: “Perché non ridi?” E lui: “Perché non mi fai ridere”. Poi tira fuori una pistola me la punta contro e mi fa: “Sentiamo la prossima battuta”. E io: “Niente battuta, lo spettacolo è finito” e sono scappato dietro le quinte.

L’incontro con Jannacci?
Enzo mi dava lezioni di vita. E ci ammazzavamo dalle risate. Una volta, fine anni ’80, eravamo in Corso Vittorio Emanuele nella sua Citroen DS, lui era alla guida e mi dice: “Fai finta di stare male e metti il fazzoletto fuori dal finestrino”. Poi accelera e passiamo in auto a tutta velocità in Galleria, con lui che urlava a finestrini aperti: “Sono un dottore, quest’uomo sta morendo”. E poi voglio ricordare Strehler che mi fece interpretare Hitler in una pièce di Brecht. Per lui fare teatro era facile come respirare. Dario Fo invece mi ha insegnato che in teatro “rubare è cosa giusta, copiare è da sciocchi”.

La via di Milano che l’è rimasta nel cuore?
La via San Calimero, nei pressi di Crocetta. Lì c’era il teatro di Piero Mazzarella. E’ una strada piena di ricordi. E poi è anomala: basta arrivarci e il rumore del traffico della via Santa Sofia che scorre proprio dietro le spalle si attenua di colpo. E’ come entrare in una contrada, ti isola dal resto. A me serve per alimentare il mio processo creativo. Non sono come Alfieri, non riesco a stare in casa e a legarmi a una sedia. Di solito vengo qui con il mio cane, passeggio per la via, guardo gli antichi palazzi, che sembrano le case di epoca manzoniana e intanto medito.

E  cosa sta preparando?
Vorrei portare il mio teatro in tv, soprattutto la mia pièce: “L’amore è un cane blu”. Intanto mi sto dedicando a un progetto su Arlecchino per il teatro dell’Arte che andrà in scena a marzo.

La Milano che vorrebbe?
Vorrei che ci fossero più luoghi in cui poter parlare, incontrarsi, stare insieme. A Milano bisogna favorire l’aggregazione. Questa città deve togliersi l’etichetta di “usa e getta”.

di Massimiliano Chiavarone

mchiavarone@yahoo.it