Milano, 6 dicembre 2013 - «Se si trattasse di cuccioli da salvare ne parlerebbero tutti. Se fossero detenuti interverrebbe il Garante. Invece, siccome sono bambini...». È amaro il tono di voce di Maria, mamma lombarda, che arriva al telefono dall’Africa nera. Lei e suo marito assieme ad altre 25 coppie sono in Congo impossibilitate a tornare in Italia con i 32 bimbi adottati per una complessa vicenda di visti e burocrazie internazionali. Maria, il nome è di fantasia perché teme che il suo sfogo possa danneggiare la famiglia, è un fascio di nervi. È a Kinshasa da un mese. Avrebbe dovuto restarci un paio di settimane, così l’avevano rassicurata all’ente che ha curato l’adozione, e poi rientrare con i bambini che per la legge congolese sono a tutti gli effetti suoi figli. Invece è un’altra storia che per ora non riesce ad avere un lieto fine. Maria e la sua famiglia sono parcheggiati in una sorta di bolla temporale con le loro paure e la loro rabbia.

Che qualcosa potesse non andare nel verso giusto si era capito a settembre quando la Repubblica del Congo aveva sospeso per un anno le adozioni internazionali. Voleva sapere che fine avessero fatto tutti i piccoli adottati negli anni precedenti. Sospettavano che in alcuni Paesi fossero stati riadottati. Cosa impossibile per l’Italia ma non altrove, leggi Stati Uniti. Maria ed altri avevano già il biglietto aereo in mano ma erano stati bloccati. Poi il viaggio del ministro Cecile Kyenge nel suo Paese natale sembrava aver risolto in parte la questione. Chi era bloccato in Africa era rientrato e chi aveva già l’adozione realizzata era partito per andare a prendere i bimbi. Invece no. Il varco aperto da Kyenge poi si è chiuso imprigionando gli italiani. Se vogliono possono tornare ma soli senza bimbi. Colpa dei tempi africani, della burocrazia, della politica e di un paese in guerra civile da anni.

«Le famiglie sono sparse per Kinshasa: alcune in piccoli residence altri in albergo altri ancora in orfanotrofio. Le condizioni quindi variano. Noi per esempio, pagando salato, possiamo avere il necessario: dai medicinali alla pasta. Certo spesso manca la luce o l’acqua corrente ma questa è l’Africa». La vita è dura, chiusi in una casa da dividere con altri. Le giornate passate aspettando una chiamata dall’ambasciata o dalla Cai, Commissione adozioni internazionali, provando a rinnovare il visto di soggiorno in scadenza o cercando di raggiungere l’orfanotrofio per stare con i figli magari per guarirli dalla scabbia o dai pidocchi. E alla paura del presente si agggiunge quella del futuro. «Molti si stanno economicamente dissanguando – spiega Maria - e per alcuni c’è il problema di aver esaurito ferie e permessi con il rischio di perdere il posto di lavoro. Dobbiamo rientrare o almeno sapere quando». La mancanza di informazione angoscia Maria. «In ambasciata sono gentili ma qui vediamo solo l’avvocato nel nostro ente per l’adozione. Quel poco che sappiamo è informale e non certo».

Maria se potesse sposterebbe le montagne per i suoi e per gli altri bambini. «Hanno diritto a una famiglia. Non capiscono cosa stia succedendo e hanno paura. Hanno paura che li lasciamo. Vogliono andare a casa in Italia» Poi nella voce c’è un sorriso: «I miei figli hanno avuto come mamma una suorina dolcissima. Per loro l’Italia è anche il Papa. Sono convinti che Francesco sia un mio amico. Chissà che delusione quando scopriranno che anche io lo vedo solo in tv». Già Papa Francesco «l’unico che potrebbe fare qualcosa per noi».

gianluca.bosia@ilgiorno.net