Milano, 18 novembre 2013 - «La svolta della Bolognina sotto certi aspetti è fallita» dice Achille Occhetto a 24 anni dall’annuncio che segnò la fine del Pci. «È fallita perché non si è trovato il raccordo tra sinistra e libertà. La mia era una scommessa storica: coniugare la libertà a una politica radicalmente alternativa al modello neoliberista. La domanda è ancora oggi senza risposta: è possibile abbracciare la libertà senza andare a destra?». Interrogativi che pervadono l’ultimo libro di Occhetto: La gioiosa macchina da guerra, manco a dirlo. «L’ho scritto con grande emozione e notevole fatica psicologica. Non è un’autobiografia in senso stretto, cerco di raccontare la storia di un comunista originale».

Un «comunista originale» al quale il Pd non piace proprio.
«Nei loro libri e nei loro dibattiti, i dirigenti democratici hanno rimosso l’esperienza del Pds. Passano con disinvoltura dal Pci al Pd: in mezzo c’è il buio, una rimozione di natura psicanalitica che richiederebbe un’analisi di gruppo. C’è bisogno di recuperare il valore delle radici perché tutto quello a cui si aspira per rinnovare il Pd era già stato individuato con la fondazione del Pds. Senza l’analisi critica e la consapevolezza della proprie radici non ci può essere creatività. Infatti molti dirigenti politici sembrano zombie che muovono nel vuoto senza sapere dove andare. Non si può costruire il nuovo unendo il peggio del Pci e il peggio della Dc».

Chi rappresenta il peggio dell’una e dell’altra parte?
«Non faccio nomi, mi interessa mettere in evidenza la damnatio memoriae che ha colpito la svolta della Bolognina. Un mistero. O forse una logica conseguenza del fatto che io rappresentavo la parte minoritaria del partito. Ha vinto chi ha interpretato la svolta come l’ingresso nel salotto buono del potere per il potere, del governo per il governo».

Ce l’ha con le larghe intese?
«Sono contrario alle larghe intese e alla loro equiparazione con la politica berlingueriana del compromesso storico. Le larghe intese sono una soluzione emergenziale che produce altra emergenza».

Il Pd è il primo garante con Napolitano.
«Sono rimasto strabiliato dalla standing ovation riservata a un ministro, la Cancellieri. Una vergogna. L’incompiutezza delle dichiarazioni del ministro si vedeva a occhio nudo. Il Pd non voleva far cadere il Governo né appoggiare la mozione dei 5 Stelle? Bene, sarebbe bastato non votarla tenendo gli occhi bassi e un pudico silenzio. L’altra vergogna è che la vicenda dei 101 non sia al centro dell’attuale congresso. Succede perché chi ha impallinato Prodi è il regista delle larghe intese. In un partito come il Pci che aveva tutt’altra consapevolezza della sensibilità dei militanti, due fatti del genere non sarebbero mai successi».

Anche il suo compagno Napolitano è per le larghe intese.
«Giorgio mi ha dato un aiuto fondamentale nel portare la sinistra italiana al socialismo democratico. La scelta delle larghe intese, però, mi perplime».

Nessuna speranza per il Pd?
«Oggi è afflitto dal male oscuro delle consorterie. Per un nuovo inizio bisogna raccogliere il meglio della tradizione della sinistra, a partire dal valore dell’uguaglianza declinato non più in chiave di giustizia sociale ma come tema di economia politica».

Nel libro si rivolge a Renzi: è lui l’uomo della nuova svolta?
«Mi è spiaciuto non abbia risposto all’invito di partecipare alla presentazione del mio libro. Detto questo, da osservatore credo sia lui ad avere più chance di vittoria. E allora gli chiedo di andare avanti con la rottamazione, perché la politica smetta di essere il ripostiglio degli ex, ma di non limitarsi alla rottamazione dei nomi. Serve anche una rottamazione delle idee, una nuova costituente delle idee, delle primarie sulle idee. L’altra richiesta è fare i conti con i contenuti della Bolognina perché non è vero che appartengono all’amarcord comunista».

E Cuperlo? Civati?
«Condivido molte posizioni di Civati ma dicono che gli manca la leadership: in Italia a chi dice cose di buon senso si contesta sempre la mancanza di leadership. Quanto a Cuperlo, sento profumo di sinistra ma dovrebbe avere il coraggio di rompere con gli apparati che lo sostengono».

La scissione del Pdl?
«Berlusconi è finito, il berlusconismo non ancora. In un contesto come quello delle larghe intese, tale scissione sarà un problema anche per il Pd perché sarà difficile trovare accordi con la componente filogovernativa del vecchio Pdl: è vero che non sono più berlusconiani, ma continuano a essere liberisti».

di Giambattista Anastasio

giambattista.anastasio@ilgiorno.net