Milano, 14 novembre 2013 - Per tenerlo fermo, mentre stava buttato addosso al suo compagno di cella, le mani a stritolargli il collo, c’è voluta la forza di tre guardie. Di nuovo fuori controllo, di nuovo tormentato dalle sue «voci cattive», di nuovo violento. Pronto a far male, e forse addirittura a uccidere, ancora una volta. Dicono che Mada Kabobo se ne era stato buono buono per tutto il pomeriggio: sguardo basso, poche parole.

Un copione già visto dietro le sbarre. La sua furia — o solo la sua follia? — è esplosa improvvisa a mezzanotte e un quarto di una settimana fa, ma la notizia si è diffusa solo ieri: una rabbia immotivata, una specie di istinto. Venti giorni di prognosi per la sua ultima vittima, un detenuto extracomunitario. Poteva finire molto peggio.

Adesso chi lo tiene d’occhio giorno e notte da sei mesi a questa parte, nei corridoi al primo piano del settimo reparto di San Vittore, giura che Kabobo, il mostro di Niguarda, aveva sempre «fatto il bravo». Mai un problema: i farmaci, è ovvio, erano stati fondamentali per tenerlo a bada. Isolato, silenzioso, perfino «collaborativo»: certo, entro i limiti in cui può esserlo un uomo analfabeta, incapace di esprimersi, giudicato affetto da una grave forma di schizofrenia dagli psichiatri che lo hanno in cura dopo la strage dell’11 maggio, quando a colpi di piccone ammazzò tre persone e ne ferì altre due.

All’alba, in mezzo alla strada. «Placido» in carcere, Mada Kabobo, perfino ingrassato di almeno una decina di chili. Così pareva che ormai di lui ci si potesse fidare: pericoloso, malato, ma «controllabile». Al punto che da qualche tempo aveva lasciato la sua cella singola, dove aveva vissuto durante le prime settimane immediatamente successive alla mattanza, per passare in una doppia da condividere con un altro detenuto nel Centro di osservazione neuropsichiatrica (Conp), l’ala di San Vittore destinata ai reclusi con problemi psichici e «ad alto rischio» per l’incolumità propria e altrui. Una capienza massima di 14 detenuti: a tenerli d’occhio, una sola guardia.

Kabobo ha aspettato il cambio dell’ultimo turno, a mezzanotte, per agire: in quel momento il suo compagno di cella era sdraiato nel letto. Forse lo aveva provocato, forse aveva detto una parola di troppo? Forse. Ma veri motivi per giustificare la violenza, anche in questo caso, non ce ne sono. Ci sono solo le «voci che lo tormentano», che lo avrebbero guidato anche la mattina della strage, che lo «obbligano» a uccidere, a punire. Dopo l’aggressione, Mada è tornato impassibile, muto, assente. Ora dovrà rispondere anche di lesioni, oltre che dell’accusa di omicidio plurimo per la quale lunedì scorso il gip Andrea Ghinetti ha firmato il decreto di giudizio immediato: secondo la perizia psichiatrica a cui è stato sottoposto, Kabobo aveva «una capacità di intendere sufficientemente conservata» al momento della mattanza di maggio, dunque è processabile.

Lui intanto, e inevitabilmente, è tornato in isolamento: gli è stata assegnata la cella numero 4, quella che chiamano «cella liscia», controllato a vista 24 ore su 24. All’interno ci sono solo una scrivania, una sedia e un letto, tutti inchiodati al pavimento. Nessun soprammobile, nessuna suppellettile. Una stanza asettica per «liberarlo dai suoi mostri» e impedirgli di procurarsi del male. O di tornare a procurarne ad altri. «Aveva fatto il bravo», Mada Kabobo. Ma adesso, di nuovo, non si possono più fidare di lui. Nemmeno dietro alle sbarre di San Vittore.