MIlano, 21 agosto 2013 - Colpevole, ma non più condannabile in sede penale. Si era già capito dalla lettura del verdetto, che per i giudici della Corte d’assise d’appello Stefania Citterio, 31 anni, avrebbe dovuto rispondere alla stregua del fratello Piero - condannato a 13 anni di carcere - per l’omicidio assurdo di Luca Massari, tassista massacrato a calci e pugni insieme ai due fratelli da Michael Ciavarella, fidanzato di Stefania, solo perché con l’auto aveva investito senza volerlo il cane della ragazza.

Ma i giudici di primo grado l’avevano condannata solo per minacce gravi nei confronti del poveretto (quelle che avevano preceduto l’aggressione fisica da parte dei due uomini). E la Procura aveva sì impugnato quel verdetto, ma in modo tanto generico da costringere i giudici d’appello a dichiarare quel ricorso inammissibile. Dunque per Stefania Citterio la condanna penale a 10 mesi era definitiva e la Corte si era dovuta limitare a far conoscere la propria contrarietà solo nelle pieghe del dispositivo, là dove in sede di risarcimenti alle parti civili trattava la ragazza esattamente come il fratello.

Ora però, nelle motivazioni della sentenza depositate qualche settimana fa, la seconda sezione dell’assise d’appello - presidente Anna Conforti, estensore Fabio Tucci - spiega con chiarezza il perché di quella scelta. Già condannato in abbreviato anche in appello a 16 anni per omicidio volontario, Ciavarella, che inflisse a Massari i colpi mortali, per Piero Citterio, 28 anni, i giudici di primo grado ritennero che non ci fosse prova che sapesse che Ciavarella stava per colpire il tassista con tale violenza da ucciderlo, e che dunque il suo concorso nell’omicidio fosse meno grave (13 anni di carcere confermati in appello).

Sempre la prima Corte ritenne invece che l’aggressione iniziale da parte di Stefania, che a Massari, 45 anni, aveva urlato di tutto, compreso «ti ammazzo, ti ammazzo!!!», era però già finita quando intervennero gli uomini a compiere il massacro. I giudici d’appello non condividono questo giudizio. «Stefania Citterio partecipò alla zuffa - scrivono - si avventò verso la vittima tanto da costituire l’effetto scatenante del suo svilupparsi».

I primi giudici d’assise, a loro parere, «incorrono nell’errore di non spiegare la ragione per la quale non hanno ponderato» le parole di un testimone oculare che disse di aver visto su Massari «le mani addosso di tutti e tre», che insieme «sembravano proprio dei cani imbestialiti che nel giro di un attimo fanno fuori una preda». Per l’ultima Corte, Stefania era colpevole come il fratello Piero, dunque.

Solo che l’impugnazione del primo verdetto da parte della Procura era stata così poco convinta - sette righe in tutto - che, osservano i giudici d’appello, «si trascura totalmente di indicare e di enucleare i punti» contestati. E ad ogni buon conto anche in aula, nella sua requisitoria, il sostituto procuratore generale Maria Vulpio aveva chiesto per Stefania la conferma della condanna di primo grado per le sole minacce. E così è stato.

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