di Gabriele Moroni

Milano, 18 agosto 2013 - «Bruciato, e non cremato, capite bene. In quei forni che si chiamano “crematoi” non ci voglio andare. Voglio esser bruciato come Pompeo, all’aria aperta... Farete una catasta di quelle acacie della Caprera, che bruciano come l’olio, stenderete il mio corpo vestito della camicia rossa sopra un lettino di ferro, mi deporrete sulla catasta colla faccia rivolta al sole, e così mi brucerete». Disposizioni chiarissime, inequivocabili. Disattese.

La volontà di Giuseppe Garibaldi di essere bruciato su una pira (bruciato, si badi, non cremato), come un eroe omerico, come un antico romano, non fu rispettata. Eppure eran chiarissime la volontà, le disposizioni, il fermo desiderio espressi nel testamento, a intimi come Achille Fazzari (l’uomo che portò a Caprera come balia Francesca Armosino, che diventerà l’ultima moglie del generale), ad amici fedeli come Giambattista Prandina, medico alle Campagne dell’Agro Romano, alla stessa Francesca, esecutrice testamentaria.

Il posto, in una depressione «sulla strada che da questa casa conduce verso tramontana alla marina, alla distanza di circa trecento passi a sinistra». Una catasta alta due metri di «legna di agaccio, lentisco, mirto ed altra legna aromatica». Il corpo vestito con la camicia rossa, la testa volta a tramontana, la bara scoperta montata su un lettino di ferro. Le ceneri da raccogliere in una piccola urna di granito insieme con quelle della moglie. Se Francesca gli fosse sopravvissuta, le ceneri del generale sarebbero andate con quelle delle sue bambine, Rosa e Anita. Così non fu.

Nel suo ufficio dominato a una parete dal ritratto di Benedetto, l’unico dei cinque Cairoli scampato alle battaglie del Risorgimento, Giuseppe Chiari maneggia come reliquie carte e documenti che ingombrano la scrivania, sfoglia pagine ingiallite di antichi tomi. Ancora prima di diventare sindaco di Gropello Cairoli, nel Pavese, la storia garibaldina è stata per lui un richiamo irresistibile, fino a trasformarsi nella passione della vita.

Un libro, «Garibaldi nella vita intima - Memorie di Francesco Bidischini», edito a Roma nel 1907. Bidischini faceva parte dell’entourage più stretto del generale: sua sorella Italia era la moglie di Menotti, primogenito di Garibaldi e Anita Ribeiro. Dietro la mancata cremazione, rivela Bidischini, si nascondeva un segreto: «Il Governo autorizzò il Crispi (presidente del Consiglio e uno dei Mille - ndr), accompagnato da un ingegnere del genio civile, con tutto l’occorrente per il forno crematorio, a eseguire la volontà di Garibaldi e se non venne distrutto quel corpo prezioso per l’umanità, si deve a un caso provvidenziale, il quale costituisce un segreto, che la sorte, volendo favorirmi, mise a mia conoscenza. Impressionatomi del segreto me ne valsi, con la massima energia, verso mio cognato Menotti, onde suo padre non venisse cremato. Menotti atterrito dalle mie minacce scoppiò in lacrime e non disse che tre parole: ‘parla con Crispi‘».

«Si tenne - racconta Chiari - una sorta di consiglio di famiglia, presente anche Crispi. Pare che Francesca Armosino fosse l’unica decisa a far rispettare il volere del marito. Si decise per una soluzione all’italiana, di quelle che nascono come provvisorie e con il tempo sedimentano fino a diventare definitive. Il corpo venne conservato e non imbalsamato come testimonia il verbale del medico Albanese, che non risparmia particolari realistici. Garibaldi venne sepolto l’8 giugno del 1882, a ben sei giorni dalla morte».

«Certamente - prosegue Chiari - nella decisione di non bruciare la salma giocarono più elementi. I garibaldini più radicali pretendevano che le volontà del loro capo venissero rispettate, altri reduci lo avrebbero voluto conservato e sepolto solennemente, magari a Roma, sul Gianicolo. C’erano considerazioni di Realpolitik, non andava offeso il sentimento religioso della neonata Italia. Ce n’erano altre di ordine pratico: il rogo sarebbe arso per almeno un giorno, tutte le autorità si sarebbero dovute trattenere e se qualcuno si fosse allontanato sarebbe stato un atto di assoluta scortesia».
Ma la chiave di volta è forse lì, nel «segreto» di cui parla Bidischini, qualcosa di tanto grave e inconfessabile da sconvolgere fino alle lacrime Menotti Garibaldi e piegare il duro Crispi.

E non è l’unico «giallo» che ha tinto gli scogli di Caprera. Anna Tola, scrittrice e biografa di Garibaldi, ha indicato il vero luogo scelto dal generale per essere arso. Non quello segnato fino al 1980 da un cartello di legno, davanti a un pino marittimo, ma un altro punto, nascosto agli occhi dei visitatori da un muretto.