Milano, 26 luglio 2013 - «Rivivere quel senso di dolore così profondo, rivedermi davanti agli occhi le immagini terribili di quel giorno, è già molto difficile, pensare che Kabobo, l’assassino di mio padre, è incapace di intendere e volere e quindi potrebbe evitare il processo e magari potrebbe essere fuori presto è un’altra pugnalata, la più dolorosa». Andrea, il figlio di Ermanno Masini, parla con un misto di rabbia e di rassegnazione. Ma non la rassegnazione di chi ha smesso di combattere o di sperare in una giustizia diversa, solo con quella di chi quella frase “Kabobo è pazzo” se l’aspettava. Per il pool di periti psichiatri che hanno finito i lavori, ma non ancora depositato le carte, il picconatore è di fatto incapace di intendere e volere.

Incapace di rispondere anche a ogni semplice domanda, incapace di porsi in relazione con chiunque e non parla una lingua comprensibile. È analfabeta, si esprime in una forma di dialetto ghanese sconosciuta e forse in parte inesistente, una lingua fatta di parole coniate da lui. Stando così le cose non potrebbe nemmeno entrare in un’aula di tribunale. Le uniche frasi sconnesse che ha pronunciato durante i colloqui, di fronte a chi era stato incaricato di scandagliare la sua mente contorta e malata sono quelle che da subito, durante i giorni dell’orrore, ha ripetuto come un mantra. «Sento le voci, sono cattive». Quale soluzione possibile?

«Ma sa cosa è che mi fa più male — continua Masini — pensare che fra qualche tempo quello potrebbe tornare libero. Perché è vero che finirà comunque in un manicomio criminale, ma se poi li chiudono e fra qualche anno torna fuori? Lui ha ucciso tre persone e dopo le ha derubate. Orrore puro». «Certo che anche un italiano può impazzire - dice ancora - può ammazzare, ma quello, qui, non ci doveva essere. Non sono razzista, per me se uno straniero è regolare, lavora e rispetta le nostre regole va tutto bene. Ma uno come quello è andato in giro per anni indisturbato e ha commesso dei reati. Questo è un problema nazionale. Non siamo in grado di creare una rete di controllo appropriata. Non c’è uan rete sociale che consente una integrazione. Non è colpa di qualcuno in particolare, ma è colpa di tutti quelli che liquidano questo problema dicendo che siamo tutti fratelli. Sarebbe bello, ma in un mondo che non è questo. Io qui non ho fratelli».

La perizia dovrà decidere anche sull’eventuale pericolosità sociale del picconatore. Qualunque sarà l’esito definitivo resta il dolore devastante delle famiglie. Di chi deve imparare a vivere senza il padre, il figlio o l’amico. Di chi teme di ritrovarselo davanti. Una rabbia che straripa. Una ingiustizia troppo grande.

Anna Giorgi
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