Milano, 23 luglio 2013 - Un colpo solo alla tempia. Muore così il 23 luglio del ’93, vent’anni fa, Raul Gardini. È nella stanza da letto a Palazzo Belgioioso, la sua residenza milanese. Ha un appuntamento con Antonio Di Pietro negli uffici della Procura, quella mattina. I suoi avvocati Marco Deluca e Giovanni Maria Flick hanno avuto la promessa che ci sarebbe arrivato da uomo libero, ma Gardini sa che, dopo, verrà arrestato. Gli portano la mazzetta dei giornali appena alzato. E il titolo di un quotidiano strilla “Tangenti, Garofano accusa Gardini”. Giuseppe Garofano è il manager che l’ha sostituito alla guida del gruppo Ferruzzi, è in carcere da una settimana. Così il “Corsaro”, l’uomo che diceva “la chimica sono io” prende la sua vecchia Walter Ppk 7,65 e preme il grilletto. Una volta sola.

Vent’anni dopo, Antonio Di Pietro l’ha ricordata così. «Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo arriva la chiamata del 113: “Gardini si è sparato in testa”. Credo di essere stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati. Mi precipito in piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto. Gardini era sul letto, l’accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».
La sera prima, appena arrivato a Milano, Gardini incontra i suoi avvocati.

È un uomo solo, che dopo aver visto sgretolarsi il suo impero sotto miliardi di debiti, ora teme di finire in carcere. Appena due anni prima aveva rotto con la famiglia Ferruzzi e il loro l’impero. Ne aveva ereditato la guida dal suocero Serafino Ferruzzi, morto in un incidente aereo nel dicembre 1979. Aveva tenuto le redini della Ferfin, la holding che conteneva Montedison, Calcestruzzi e decine di altre società. In pochi anni Gardini aveva trasformato la Ferruzzi in un gruppo prevalentemente industriale, grazie a una politica di continue acquisizioni, sempre con grandi esposizioni sui mass media, che ne costruivano una sorta di mito. A metà degli anni ’80, prima aveva avviato la scalata a Montedison e poi aveva messo in cantiere il gigantesco progetto di Enimont, joint venture fra la privata Montedison e il pubblico Eni allora retto dal socialista Gabriele Cagliari. Enimont nasce il primo gennaio 1989, ma il conferimento delle rispettive attività nella società comune comporterebbe per il “Corsaro” notevoli plusvalenze per ragioni contabili. Il governo guidato allora dal dc Ciriaco De Mita gli ha promesso sgravi fiscali che però non arrivano.

Gardini prova a forzare la mano, e attraverso due finanzieri amici rastrella in Borsa quel che basta per avere la maggioranza di Enimont. Crede di aver vinto ma non finirà così. L’Eni non ci sta, il governo fissa il prezzo delle azioni e gli pone l’aut-aut: o vende tutto o compra tutto. Gardini vorrebbe comprare, ma in quella situazione di stallo l’avvocatura dello Stato chiede e ottiene il blocco di tutte le azioni Enimont in mano alle due parti: un provvedimento anomalo firmato dal presidente vicario del tribunale di Milano, quel giudice Diego Curtò che in seguito verrà arrestato per corruzione insieme alla moglie.

A quel punto per l’erede dei Ferruzzi il passo è obbligato: non può che vendere. Il prezzo lo fissa lui e il governo accetta. Ma è gonfiato alla grande per accontentare tutti: Gardini e i partiti. Il finanziere Sergio Cusani ha già avuto da lui l’incarico di preparare un tesoretto da 150 miliardi, la “madre di tutte le tangenti” che dovrà consentire il via libera per il maxi- affare. Dove siano finiti quei soldi, lo si è scoperto solo per le “briciole” finite ai socialisti, ai democristiani, ai republicani, ai socialdemocratici, ai liberali, persino ai leghisti ultimi arrivati. Più un miliardo portato dallo stesso Gardini a qualche inquilino di Botteghe Oscure rimasto sconosciuto. Ma più di 90 miliardi, nelle prime settimane del gennaio 1991, vengono depositati sotto forma di Cct allo Ior, in Vaticano, passando di mano da Cusani al giornalista Luigi Bisignani (già P2) fino a perdersi grazie alla banca vaticana. Dove, è rimasto un mistero.

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