di Tino Fiammetta

Milano, 4 giugno 2013 - Due secoli di carcere per associazione mafiosa, estorsione e droga. A febbraio il mammasantissima Pepè Flachi (in galera dal 1991, quando Milano era insanguinata da cento omicidi l’anno) aveva rimediato la più alta condanna: 20 anni. Altri 13 anni al fratello Emanuele e 14 al figlio Davide.

Ieri le motivazioni di quella sentenza storica, depositate dai giudici della settima sezione penale di Milano: la cosca della ’ndrangheta dei Flachi era una sorta di «agenzia di collocamento», perché dava lavoro a persone che avevano «bisogno di procurarsi una occupazione per sé o per i propri cari» nel Centro Sportivo Iseo di proprietà del Comune di Milano. Un centro che, in sostanza, sarebbe stato controllato e diretto dal clan fino al marzo del 2011, quando scattarono gli arresti.

I giudici nelle motivazioni segnalano anche un altro episodio, che era già emerso nell’ambito delle indagini: una cena «al ristorante milanese ‘Gente di Mare”», il 5 giugno 2009, in cui «personaggi di spicco della ‘ndrangheta calabrese» avevano incontrato «personaggi politici». Ci sarebbe stato il presunto boss Paolo Martino - condannato a 17 anni - e con lui, stando alla testimonianza di un investigatore, sarebbero stati presenti anche l’ex assessore lombardo, Domenico Zambetti, poi arrestato per voto di scambio, ed «Emilio Santomauro, che era all’epoca consigliere comunale».

Intrecci fra politica, affari, criminalità organizzata. E vita comune. Già, perché l’indagine aveva messo in luce le infiltrazioni della cosca calabrese - di cui il boss Pepè Flachi era l’incontrastato leader - anche nelle piccole attività quotidiane. Che ci fossero gli uomini di Pepè dietro le aziende che si occupavano di «movimentare la terra» (sbancamenti e affini) nei cantieri della metropolitana era molto più che un sospetto. Altri uomini, secondo i giudici, erano sistemati nei cantieri dei box del teatro Smeraldo a Milano, o in quelli di una galleria sulla Statale dello Spluga. O addirittura nell’intervento di ristrutturazione del comando dei pompieri di Monza.

La ’ndrangheta calabrese fa rima con appalti, cemento e costruzioni. È singolare trovare gli emissari dei clan, per esempio, nelle cooperative che garantivano le consegne dei pacchi postali: 150 furgoni movimentati in lungo e in largo in Lombardia, e alla guida c’era sempre qualcuno in odore di mafia. A scorrere le pagine della motivazione si fa fatica a pensare di essere lontano dalla famigerata linea delle palme (quella che Sciascia indicava come confine della mafia). Sembra di stare a Spaccanapoli o ad Africo quando si legge che anche dietro i piccoli gruppi che distribuiscono panini alla porchetta allo stadio o davanti l’Università c’erano i loschi figuri legati alla famiglia di don Pepè. Pretendevano dagli ambulanti il pizzo, camuffato da «tassa di sosta».

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