Milano, 20 aprile 2013 - Sgomento e rabbia. Affossata la candidatura di Romano Prodi alla Presidenza della Repubblica, al Pd lombardo non resta altro. Sembrava dovesse essere il Prof, redivivo, l’uomo della svolta, l’uomo che avrebbe ricompattato il partito e la coalizione. Invece a Prodi sono mancati la bellezza di cento voti. Sgomento, allora. E rabbia contro i «franchi tiratori», contro i traditori, contro chi non si assume la responsabilità delle proprie scelte. Lo sgomento è tutto del segretario lombardo, Maurizio Martina. Poche parole, le sue: «Sono sconfortato. Non so cosa possa succedere».

La rabbia è a firma del senatore Franco Mirabelli, coordinatore regionale dell’area Dem, quella vicina a Dario Franceschini e di Alessandro Alfieri, capogruppo in Consiglio regionale e renziano doc. «Credo che la misura sia colma — si sfoga Mirabelli su Facebook —. Credo che i cento che questa mattina (ieri mattina ndr) hanno applaudito in piedi entusiasti la candidatura di Prodi e poi non l’hanno votato debbano avere il coraggio di dirlo e di spiegare perché stanno umiliando questo partito e soprattutto agendo contro l’interesse del Paese. Per ciò che mi riguarda quello che è successo è una vergogna». «Inaccettabile che ci siano cento dei nostri che al mattino dicono sì a Prodi e poi al pomeriggio non lo votano perché protetti dallo scrutinio segreto. Al di là di come la si pensi, credo che tutti debbano prendere esempio da Matteo Renzi: lui sarà urticante ma per lo meno parla chiaro e dice le cose in faccia».

L’analisi, invece, è di Umberto Ambrosoli, che del Pd non è ma è il grande elettore scelto dal centrosinistra lombardo: «Cento voti non sono pochi. Il quarto scrutinio — scriveva nel pomeriggio — sembra destinato alla conta delle parti più che al raggiungimento della maggioranza». Già, «conta delle parti». Il Pd nazionale sembra essere arrivato, per mezzo dell’elezione del Presidente della Repubblica alla resa dei conti tra le anime che lo compongono: quelle che vorrebbero un accordo con Beppe Grillo, quella che lo vorrebbe col centrodestra, quelle che giocano per sé. In tutti i casi il destino di Pier Luigi Bersani da segretario sembra segnato. Perché oggi il partito è allo sbando. E ad ammetterlo non è, stavolta, solo il renziano Alfieri ma anche l’assessore milanese Pierfrancesco Majorino, che alle primarie appoggiò Bersani: «Il Pd, se esisterà ancora, sarà tutto da rifare». «Bersani non controlla più il partito» constata Alfieri. Majorino insiste, allora, sulla via dei giorni passati: «Detto che Prodi proprio non se lo meritava, perché non Stefano Rodotà, ora?». Sgomento, rabbia. E tante, ormai troppe domande. Così il Pd oggi. E non solo quello lombardo.

giambattista.anastasio@ilgiorno.net