Milano, 9 novembre 2012 - Lupara bianca, uno scomparso per mano mafiosa non a Gela, ma a Busto Arsizio. Uno di cui, solo grazie alla scelta di collaborare da parte del mandante dell’assassinio, si è potuti risalire alla fine. Ammazzato dagli uomini d’onore gelesi trapiantati in Lombardia, perché sgarrava dal codice mafioso. Come spendere, a sproposito, il nome del boss Piddu Madonia, per intimdire artigiani e costruttori; chiedere 50 mila euro a un pellettaio, giustificandoli oscuramente «con l’aiuto ai carcerati»; insufflare il terrore di attentati incendiari nei cantieri dei costruttori gelesi messi sotto attacco dalle famiglie. Non rispettare, alla fine, ordini, gerarchia, regole.

Il 2 ottobre 2008 Salvatore D’Aleo, uomo della cosca retta a Busto Arsizio da Rosario Vizzini in nome dei Rinzivillo, in quell’ora di sera in cui i “bravi ragazzi” salgono sulle auto e se ne vanno in giro a intimidire e ricattare, è stato ucciso da due uomini con due colpi di 7.65, è stato poi dissanguato per accelerarne la decomposizione, quindi interrato a mala pena in un boschetto di Vizzola Ticino, nel Varesino. E là i suoi resti sarebbero rimasti, se il 9 giugno 2011, lo stesso capo mandamento di Busto, Vizzini, non avesse deciso di collaborare, in quel baratto, privo di ipocrisie, fra la verità data allo Stato in cambio di pene più lievi.

Quattro anni dopo, uno scomparso ritrova la sua vera fine. Con la condanna, scritta dal giudice dell’udienza preliminare Claudio Castelli, del mandante, Vizzini, a 11 anni e 4 mesi proprio in virtù della legge premiale sui pentiti, e di uno degli esecutori materiali del delitto, Fabio Nicastro, per cui invece c’è l’ergastolo. A carico di entrambi una provvisionale immediatamente esecutiva di 100 mila euro da liquidare ai familiari di D’Aleo.

La storia si dipana come una limpida sceneggiatura da film di mafia mediterranea e d’oltreoceano. «Siamo uomini d’onore» diceva Vizzini nei suoi verbali ripresi, in motivazione, dal giudice Castelli. Il dovere è «aiutarsi». «Faccio parte di Cosa Nostra dal 1994. Al momento della mia filiazione erano presenti Piddu Madonia, Gino Rinzivillo...Eravamo nell’aula bunker di Rebibbia...La cerimonia fu regolarmente celebrata con uno spillo con il quale venni punto all’indice della mano destra. In quella circostanza ricordo che mi dovetti impegnare a mettere l’interesse di Cosa Nostra prima di quello della mia famiglia. Mio padrino fu proprio Gino Rinzivillo».

Così Vizzini racconta la fine di D’Aleo: «Gli autori dell’omicidio sono stati Emanuele Italiano e Fabio Nicastro...D’Aleo andava in giro a fare estorsioni a Busto Arsizio spendendo il nome di Piddu Madonia, nonché il mio, quando ero in carcere (per l’omicidio dell’avvocato Mirabile, ndr)...Avevamo prediposto anche una zappa e un badile con i manici tagliati per occultare il corpo». I due emissari incontrano D’Aleo la sera del 2 ottobre in un bar di Busto, lo fanno salire in auto, prendono per Novara, deviano per campi paralleli al Ticino.

«Qui i tre sono usciti e Italiano ha esploso un colpo di pistola alla testa di D’Aleo... Emanuele poi ha dato la pistola a Fabio e ha detto “spara”.» E’ il secondo colpo alla testa. «Poi l’hanno spogliato. Italiano con un coltello ha reciso i nervi del collo, all’altezza della nuca per dissanguarlo più velocemente, e hanno buttato il corpo nella scarpata». Poi la veloce onoranza fenubre nella terra bagnata dal fiume, dove quattro anni dopo i resti verranno ritrovati. Grazie all’impulso alla verità dell’”uomo d’onore”, che a quanto pare ha chiesto «perdono in ginocchio alle parti offese».

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