Milano, 1 luglio 2012 - «A Milano ci vuole orecchio». Dice Michele. Gino di rimando: «E il pacco immerso dentro al secchio». Eccoli qui Gino e Michele, i mostri sacri dell’editoria comica e satirica, insieme dal 1968 per formare il duo autorale più autorevole della tv, menti della corazzata chiamata Zelig. Ma soprattutto milanesi doc. Michele Mozzati e Gino Vignali per servirvi. Così inciuciati con Milano da ambientarvi anche un romanzo, a metà strada tra il giallo e la ricerca di un passato ormai svanito. Un percorso a ritroso, negli anni dell’infanzia, in quei luoghi amplificati e assolutizzati dalla fantasia di due bambini. Una narrazione che prende avvio da piazza Grandi e dal suo Gigante.

Che bambini eravate?
Gino: «Io nato e cresciuto al Corvetto, Michele nel quartiere Vittoria. Siamo di quelli venuti su grazie agli oratori che all’epoca erano all’avanguardia, perché i primi a mettere a disposizione dei piccoli campi da calcio. Per solidarietà artistica ho accettato di spostarmi in piazza Grandi dove abbiamo ambientato il nostro primo romanzo: “Neppure un rigo in cronaca”, scritto circa 12 anni fa e ora ripubblicato da Feltrinelli».
Michele: «In quelle pagine c’è tutto il nostro amore per Milano. Con i suoi bar come quello di piazza Grandi, che ancora esiste, in cui si riunivano le famiglie a guardare “Il Musichiere” e “Lascia o Raddoppia”, le prime tornate di meridionali in città, l’ottimismo che si respirava a pieni polmoni e i nostri giochi di bambini come il “Giro”, cioè una specie di gara con le biglie in cui al posto delle sfere di vetro usavamo i tappi piegati delle bottiglie, e le piste scavate nella sabbia per noi erano i marciapiedi che correvano lungo il perimetro della piazza. Tra una pausa e l’altra giocavamo col Gigante, saltando sulle sue ginocchia oppure sgattaiolandogli tra le gambe».

Alla ricerca della Milano perduta?
M.:
«Sì, era la Milano degli anni ’50, colta poco prima dell’esplosione del boom economico e dell’arrivo del tornado dell’edilizia che la doveva travolgere, ma raccontiamo anche ciò che in nuce c’era già e che poi sarebbe diventata nel bene e nel male la storia degli anni a venire, con il progetto di Enrico Mattei, le degenerazioni della politica e la prima maxitangente, madre di tutte le altre, quest’ultimo elemento frutto della nostra fantasia e che collochiamo il 27 febbraio 1958, cioè lo stesso giorno della rapina di via Osoppo, emblema della storia criminale milanese. Era la Milano in cui credevamo di avere il mondo ai nostri piedi e potevamo fare tutto quello che volevamo».
G.: «E chi non voleva fare un cavolo come noi ci è riuscito».

Ma come? Avete da poco festeggiato il quarto di secolo come autori di Zelig, forse il programma più visto delle televisione italiana. Quali le novità della prossima edizione?
G.:
«Dopo 4 anni lasciamo gli Arcimboldi e torniamo in un teatro tenda. Solo che stavolta siamo in trattative col Comune per farlo a Milano, il cuore di Zelig. E poi c’è il totoconduttore…».
M.: «E su questo possiamo dire: Belen non ci sarà, ma le new entries non saranno un doppione della coppia che ci ha dato tante soddisfazioni, Claudio Bisio e Paola Cortellesi. Per il resto bocche cucite e orecchie tese».

Insomma, parafrasando la celebre canzone che avete scritto per Enzo Jannacci, anche qui ci vuole orecchio.
M.:
«A Milano ci vuole orecchio: ti devi far capire dalla gente e far tesoro delle altre culture. Milano è il simbolo del melting pot: se ieri non ci fossero stati pugliesi, napoletani e siciliani, Milano non sarebbe riuscita a incrociare la sua cultura mitteleuropea con quella mediterranea».
G.: «Bisogna “avere il pacco immerso dentro al secchio”, cioè essere nella realtà, capirla e non ragionare per esclusione. Oggi la cultura di Milano si è arricchita della presenza di egiziani, sudamericani, cinesi: se non accetta gli altri Milano non esiste».

Il vostro progetto per Milano?
M.: «Creare un Festival gemellaggio Milano-New York, altra città simbolo del melting pot. Per cominciare ci siamo ispirati a “Manhattan” di Woody Allen, girando un corto in cui, in parallelo con l’aiuto dei registi Tonino Curagi e Anna Gorio e la fotografia di Ercole Visconti, scorrono le immagini della Grande Mela e quelle di Milano e poi…».
G.: «Vogliamo proporre alla Giunta Pisapia un contenitore, magari anche logistico, che, tra cinema, musica, libri, teatro e tv, mostri che la cultura del campanile è stata abbattuta da quella dell’integrazione».

di Massimiliano Chiavarone

mchiavarone@yahoo.it