Milano, 19 novembre 2011 - C'erano una volta una cassaforte in nero, dentro il San Raffaele. Fin quando un’inchiesta della Procura della Repubblica (sul Centro del sonno) non indusse a spostare il tesoro. Era a esclusivo uso contanti, liquidissimi extracontabili. E più o meno tutti, della famiglia allargata di dirigenti e amministrativi, ne sapeva collocazione e destinazione. «Dietro una falsa colonna nel corridoio che collegava gli uffici all’atrio esterno». Zona vicepresidenza. E «comunque tutti, poi, conoscevano il luogo dove venivano riposte le chiavi, ma nessuno accedeva alla cassaforte». A parte il vicepresidente Mario Cal e la sua segretaria Stefania Galli. Là finivano, come racconta a verbale la stessa assistente del dirigente suicida, la Galli, le buste di denaro provenienti dal costruttore della Diodoro Pierino Zammarchi, destinate al superfaccendiere dei fondi neri Pierangelo Daccò, e da lui dirette chissà a chi e chissà dove.

Sono i contanti definiti dalla Procura della Repubblica «retrocessioni» a fronte di commissioni e fatture ipervalutate dal San Raffaele stesso fin oltre il 50 per cento, e che paiono il sistema a monte del crac da un miliardo e mezzo di euro. Quelli che ora giustificano un’indagine con sei indagati, fra cui don Luigi Verzé, per bancorotta fraudolenta. «Il dottor Cal chiamava Zammarchi e gli chiedeva di portare il contante». Frequenza delle dazioni regolare, «all’incirca una volta al mese», a partire dal 2005. «Cal apriva le buste e controllava vi fosse il denaro». «Le buste erano di dimensioni abbastanza voluminose più o meno dell’altezza di 3-4 centimetri e contenevano banconote da 500 euro». Era Cal stesso a contare il denaro. Lei, la segretaria, veniva chiamata in causa per prelevare, a volte, «importi di circa 5000 euro», e quando lo chiedeva Cal: ma il suo personale conteggio non andava oltre.
 

Poi però la falsa colonna del nero non fu più sicura: «Cal disse di riporre il denaro contante all’interno della cassaforte dell’albergo Rafael». Per questo «fu contattato il nipote del dottor Cal, Mauro Vardanega (direttore dell’albergo)». «Questa esigenza deriva dal fatto che avvenne una perquisizione disposta dalla Procura della Repubblica di Milano nell’ambito di un’inchiesta legata al Centro del sonno». Non una ristretta cerchia, ma una sorta di famiglia allargata sapeva della corsia preferenziale degli Zammarchi (che «andavano e venivano come a casa loro»): imprenditori di medio calibro dei quali il capostipite Pierino, dopo un’indagine per criminalità organizzata a suo carico, cedette il passo alla Metodo intestata al figlio Gianluca, cambiando modi di dazione del denaro. 
 

Ma chi sapeva del sistema sovraffatturazioni e fondi neri? «Il ragionier Mario Valsecchi» risponde la segretaria, il direttore amministrativo e «uomo di fiducia di Cal a 360 gradi». E Cal, ovvio, che una definizione sarcastica dentro il San Raffaele bollava come «Mister 5 per cento». Poi il dirigente Danilo Donati rilancia, a domanda dei pm: «La Voltolini, donna di Don Verzé, la segretaria di Cal, Stefania Galli, l’ingegner Santoro Gianluca, che negli ultimi tre anni è stato assistente di Cal e responsabile dell’ufficio acquisti diretto dall’avvocato Russo Alberto e dell’ufficio tecnico diretto da Andrea Roma. Sicuramente la segretaria di Don Verzé, Cattelan Daniela, l’avvocato Alessandro Cremaschi, responsabile dell’ufficio legale interno. Queste persone erano a conoscenza, per averne parlato con ciascuno di loro».


Ma a fronte di tali dichiarazioni, l’unico fermato per concorso in bancarotta, l’uomo estero su estero, Don Pedro o Piero Daccò, nel suo interrogatorio di ieri a Opera rilancia una visuale minimalista: «Sono un faccendiere». I tre episodi di tre milioni e mezzo contestati dalla Procura, e da lui ammessi, vanno visti come «restituzione di prestiti a titolo personale fatti a Cal». Ma Cal non può replicare.