Milano, 6 novembre 2011 - C'è un museo nuovo in piazza Scala, e dentro ci si legge, oltre alla storia dell’arte lombarda dell’800, anche la nascita del design. Parola di chi l’ha progettato, il restauro in punta di compasso che ha trasformato quattro palazzi intrisi di storia e prestati a ufficio nelle Gallerie d’Italia di Intesa Sanpaolo. Michele De Lucchi, sessant’anni, ha progettato cose d’ogni tipo, comprese banche, centrali elettriche e computer. Un designer, consacrato nel ’79 da un fotomontaggio sulla copertina di Domus come erede di una linea che parte da Gio Ponti e passa per Ettore Sottsass (col quale ha lavorato).

 

Ha messo mano allo scrigno, decisamente all’altezza del contenuto del museo. Palazzo Anguissola, progettato a fine ’700 dal ticinese Carlo Felice Soave, salotto del conte Antonio Carlo, collezionista d’arte e di scienziati come Alessandro Volta, che qui, nel 1792, diede dimostrazione dei suoi primi esperimenti sul «fluido elettico animale». Palazzo Antona Traversi, fatto costruire d’angolo dal proprietario successivo, che incaricò il maestro neoclassico Luigi Canonica, progettista dell’Arena Civica, nonché del terzo edificio, Palazzo Brentani, simbolo di una Milano asburgica e cosmopolita, quella di Stendhal. Nel passaggio tra i tre palazzi, camera di compensazione un cortile quadrato intorno a un disco di Pomodoro, «cambia il mondo e nell’abitare leggiamo la trasformazione della società». Dalla casa aristocratica, sfoggio di potere a mezzo sfarzo e capricci come una finestra sopra a un caminetto, alla casa borghese, che pretende il comfort e alla regia dell’architetto sostituisce l’estro del proprietario, gettando le basi per la nascita del design. Un secolo prima dei creativi, a Milano c’erano già i consumatori, e De Lucchi ne indica le tracce. «Ho solo messo insieme le cose e trovato le sorprese».
 

Quali sorprese, trasformando gli uffici di una banca in museo?
«Dettagli, mascherati o cementati nelle pareti. Come un colonnato nella sala dedicata a Boccioni, che era annegato in uno strato di cartongesso. Se ne vedevano solo un paio, trattate a lesene, girandoci intorno abbiamo scoperto le colonne, monoliti di granito, bellissime».


Certe sale le ha lasciate vuote.
«L’idea è creare chiaroscuri in un ambiente improntato alla funzionalità. La nostra mentalità di uomini pratici ci abitua a non sprecare lo spazio, ma esiste uno spazio di rispetto, da lasciare libero intorno alle cose, separandole».


Lavoro di chiaroscuri, dice.
«È un intervento in cui si hanno tanti clienti diversi. Sicuramente il visitatore, cui va data attenzione costruendo un percorso comprensibile, comodo e filologicamente corretto. Ma ci sono altri clienti».
 

La banca?
«Certo, bisognava realizzare qualcosa che corrispondesse all’idea che l’istituto ha di sé e dell’operazione. Un altro cliente importante, però, era la Storia, intesa come conoscenza che l’uomo ha di se stesso e di ciò che ha fatto. Un cliente che non si può ingannare o manipolare, perché chiunque se ne accorge subito».
 

Altri clienti?
«L’aspetto conservativo, non secondario perché noi uomini pratici abbiamo anche standard di manutenzione poco adatti alle strutture storiche. I pavimenti antichi, lavati tutti i giorni, si danneggiano. Come ha detto qualcuno, “la polvere è la pelle del tempo”».


Lei ha detto che nel passaggio da un palazzo all’altro si può vedere come nasce il design. Ma, scusi, nell’800?
«Dipende da quel che si intende per design. Il disegno industriale, ad esempio, è nato col primo mattone stampato dagli assiro-babilonesi. Personalmente credo che faccia parte da sempre della mentalità “industriosa”, appunto, dell’uomo. Ma è cosa diversa dal design che è di moda oggi, e appartiene solo a questo momento storico».


Allora cosa nasce nell’800?
«Un diverso modo di arredare, dal punto di vista del fenomeno sociale più che della creatività».
 

Il consumatore?
«Esattamente. Con la rivoluzione industriale c’è una diffusione di stili diversi, e di stimoli immaginifici diversi, che fa sì che non si “compri” più ingaggiando un archtetto, ma sul mercato. Non c’è un committente aristocratico, ma un consumatore borghese che sceglie le poltrone, i quadri, le sedie, le lampade, e questo scegliere fa nascere un’offerta del design. I mobili di colori e materiali diversi sono conseguenza di una richiesta di scenari diversi, cui ognuno attinge per comporre la propria casa ideale. Una casa flessibile,che si trasforma».
 

Dove nasce l’offerta?
«Si ritiene che la prima azienda del design sia stata la Wedgwood, una ceramica inglese, nel ’700, e la prima multinazionale nell’arredo l’austoungarica Thonet, in epoca vittoriana».
 

E in Italia il pioniere?
«Direi Gio Ponti, prototipo dell’architetto-designer-scrittore-disegnatore-artista».
 

Ma siamo già nel ’900.
«Come fenomeno strutturale, siamo anche dopo la seconda guerra mondiale. Prima ci sono stati i razionalisti, Terragni, Pagano, Figini e Pollini che hanno raccolto la sfida d’inventare un nuovo mondo attraverso il design».


Quindi in Italia prima arrivano gli appassionati e poi i designer.
«Esatto. Nell’800 i modelli di riferimento sono in Germania e soprattutto in Gran Bretagna, dove succede una strana cosa. Nel 1851 a Londra c’è la prima Esposizione universale, quella che rompe gli indugi rispetto a un’idea moderna del mondo e della casa. La fanno al Crystal Palace, dentro una serra gigante costruita dallo specialista Joseph Paxton, più un giardiniere che un architetto, dove sono concentrati gli stand: letti, tavoli, sedie, poltrone, acquistabili liberamente secondo il gusto di ciascuno. In quel momento la casa diventa il palcoscenico dove recitare la propria esistenza».


Quindi il Made in Italy si “appropria” della palma del design solo nel ’900.
«Grazie alla nostra tradizione artigiana, a imprenditori come Cassina, poi Castelli della Kartell, Gandini con la Flos, Ernesto Gismondi, che impongono lo stile di vita italiano come il più bello e adatto a tutti. Ci riescono combinando talento artigianale, capacità imprenditoriali dei capitani d’azienda, le idee degli architetti, da Ponti a Sottsass, con Mollino, Castiglioni, Magistretti... L’altro particolare che ci differenzia è aver mantenuto un contatto costante con l’arte, che ha nutrito il design italiano impedendogli d’inaridirsi».
 

Stato di salute, al momento?
«Siamo sempre al centro dell’interesse, propulsori rispetto a quel che succede nel mondo. Il nostro arredo continua a funzionare grazie alla buona ricerca artigiale che abbiamo mantenuto».
 

La missione della microazienda che ha creato nel ’90, «Produzione Privata»?
«Sì. La carta vincente del Made in Italy è l’artigianato, che non è una compagnia di mastri Geppetti, ma è intriso dell’imprenditorialità della piccola e piccolissima industria, quella che resta la nostra forza. Una capacità di sperimentare che è la speranza di rinnovamento dell’industria italiana».


Lei nasce architetto.
«Nasco architetto e mi sviluppo come designer. Il design italiano della casa non è separato dall’architettura. Trattiamo tutti il mondo dell’abitare».


A proposito dell’abitare nei palazzi storici, negli ultimi quindici anni il centro di Milano è lievitato verso l’alto con sopraelevazioni a volte spericolate per recuperare metrature di pregio.
«Credo che le città, come le case e gli oggetti, debbano poter vivere. L’architetto deve essere conservatore del passato, depositario del presente ma anche guardare al futuro. Le tre cose insieme, se una prevale si spezza l’equilibrio. Poi certo ci sono gli errori, cose brutte, cose sbagliate. Ma questo non deve condannarci all’inamovibilità: costruire ingombri che diventano ostacoli al futuro è l’errore più grande che possiamo fare».


A proposito di futuro, lei è stato per dieci anni capo-designer alla Olivetti, fino al 2002.
«La tecnologia crea oggetti fantastici, sta aprendo la strada per un futuro possibilmente migliore. Purtroppo il disegno dei prodotti tecnologci spesso non contempla l’uomo, concentrandosi su nicchie di mercato con l’ansia di aver successo rapidamente. È questo il grande rischio, non ascoltare i bisogni dell’uomo come invece sapeva fare quel ragazzo della mia età che se n’è andato poco tempo fa».