milano, 15 luglio 2011 - Niente colpi di scena. Il fondatore del San Raffaele, don Luigi Verzè, passa la mano. «Resterà come guida spirituale dell’opera». Non sarà il sacerdote novantunenne a traghettare la sua creatura fuori dalle sabbie mobili di un debito da un miliardo di euro. Resta presidente sì - come deciso ieri pomeriggio dal Cda - ma senza deleghe operative: «Con la sua genialità - lo saluta il governatore Roberto Formigoni - ha costruito un’assoluta eccellenza a livello mondiale».

Il Vaticano, invece, che ha scelto di intervenire in forze per risanare il bilancio del Monte Tabor, preferisce affidarsi al nuovo vicepresidente Giuseppe Profiti, numero uno del Bambin Gesù di Roma. Sullo sfondo, la figura di Enrico Bondi: secondo indiscrezioni non confermate, l’ex ad di Parmalat potrebbe ricoprire un ruolo di spicco nel nuovo San Raffaele. E don Verzè? Totalmente depotenziato, paga il prezzo dei conti in rosso e di tante operazioni economiche rivelatesi pozzi senza fondo. Basti pensare alle attività no core, cioè che poco o nulla hanno a che spartire con la gestione di una struttura assistenziale. Così inutili che il piano di risanamento, passaggio indispensabile prima di poter beneficiare dei soldi della Santa Sede e della charity internazionale targata George Soros, ne prevede l’immediata dismissione. Si cambia registro. Prova ulteriore ne è il siluramento di tutti gli uomini (e le donne) del presidente, a cominciare dal fedelissimo Mario Cal.

E ancora, escono dal Cda Gianna Zoppei e Raffaella Voltolini, direttrice generale dell’ateneo: per loro, don Verzè ha lottato fino in fondo, chiedendo l’allargamento del board. Niente da fare, bocciato su tutta la linea. Da oggi in poi le decisioni le prenderà solo Giuseppe Profiti, ex direttore generale della Regione Liguria. Con lui, altri tre uomini indicati dal Vaticano: il presidente dello Ior, Ettore Gotti Tedeschi, l’imprenditore genovese Vittorio Malacalza e l’ex Guardasigilli Giovanni Maria Flick; a completare il quadro, i due docenti universitari Massimo Clementi e Maurizio Pini. Dopo quarant’anni finisce un’epoca. Se ne apre un’altra. Tra le mille incognite del progetto di rilancio, una sola certezza: a novantuno anni suonati, il prete manager avrebbe evitato volentieri di andare in pensione.