Milano, 6 gennaio 2011 - «Ultime ore», minacciano i cartelli mobili ai tre muri del baracchino sotto i portici, appena prima della Rinascente. Un biglietto cinque euro, sfregata propiziatoria sul ferro di cavallo e avanti il prossimo: ieri Lorenzo Tella, l’uomo della fortuna, era anche l’uomo più richiesto di piazza del Duomo. E a guardare la processione di «mi dà un biglietto?» dietro l’altro, non si direbbe che la Lotteria Italia, ex di Capodanno - la stessa che oggi estrarrà una maratona di premi lungo il palinsensto di Rai 1, da «Uno mattina» a «L’eredità» fino a «I migliori anni» di Carlo Conti per il malloppo da cinque milioni di euro - sia in agonia, uccisa dal gioco veloce del gratta-e-vinci e del Superenalotto. Sarà che nei paraggi, l’anno scorso, è stato staccato il vincitore di un premio da un milione e mezzo. Sarà quel rito del ferro di cavallo. Tella frena ogni tentativo di romanzare: «Guardi, è solo che si riducono all’ultimo. Si son svegliati tre giorni fa».

 

Settantasette anni, sposato, quattro figli e undici nipoti, è sulla piazza da prima della Lotteria Italia: «Quando ho cominciato a vendere biglietti a Milano, nel ’54, c’erano solo Merano e Agnano». È nato a Cerignola, Foggia, e lì, all’età di dieci anni e mezzo, gli è «capitata la disgrazia» che l’ha reso cieco. «Cieco», dice, mica non vedente come vorrebbe un politicamente corretto inventato quando ormai per lui i giochi erano fatti, e la racconta spontaneamente, asciutto. Gli preme di più, però, diffondere il suo motto: «Ambo lavorare, terno continuare». Il che, detto da uno che maneggia la fortuna, e in tempi di giocatori compulsivi che la pretendono sempre più istantanea, dà da riflettere.

 

Allora, è vero che la lotteria sta morendo?
«Veda lei: prima c’erano tredici lotterie, adesso ne son rimaste solo due: Viareggio-Sanremo, e questa di Capodanno. Prima le serie si ripetevano fino alla C e anche alla D, quest’anno neanche riusciamo a venderli tutti...».

Lei ha fatto sempre questo mestiere?
«Sì, vendo i biglietti dal ’52. Perché avrà visto, m’è capitata una disgrazia».

Cosa è successo?
«Avevo dieci anni e mezzo, era la fine di settembre, c’era una festa di paese, a Cerignola. Eravamo alla periferia del paese, in campagna, e qualcosa m’è esploso in faccia».

Un petardo?
«Chissà, forse una bomba carta. So solo che sembrava un cespuglio di fuoco. Mio fratello ha perso una mano, gli altri due che erano con noi, anche. Io ho perso la vista».

E poi?
«Dopo tutte le operazioni, quando ormai s’era capito che non c’era più niente da fare, mi hanno mandato in istituto, a Firenze. Era il 5 gennaio del 1950».

Esattamente sessantun anni fa. E i biglietti?
«In istituto sono rimasto per tre anni, poi ho cominciato a vendere i biglietti della lotteria. Nel ’54 sono arrivato a Milano, non avevo ancora compiuto vent’anni».

E dove li vendeva?
«Ho girato tutti i posti, il centro: Cordusio, via Tommaso Grossi, piazza Lima... All’epoca eravamo trentasei ciechi a fare questo lavoro in tutta Milano».

Adesso?
«Come venditori saremo rimasti una decina».

E qui in piazza del Duomo come è arrivato?
«Quando è morto il titolare precendente sono subentrato io: era il giugno del ’65».

Più di mezzo secolo...
«Da allora non mi sono mosso».

Scusi, ma quando la pagano come fa a sapere che l’importo è giusto?
«E come devo fare? Al tatto!».

Riconosce i soldi al tatto? Quando è arrivato l’euro avrà avuto qualche problema...
«Infatti, avevo quasi deciso di ritirarmi».

Davvero?
«Sono stato a casa una settimana. Ma mi son ritrovato, scusi il termine, rincretinito».

Cioè?
«Allora mi ero già trasferito fuori Milano, a Cologno. Dove stavo prima, e ci stavo dal ’53, mi conoscevano tutti. Lì invece non conoscevo nessuno, facevo soltanto il giro dell’isolato. Mi sentivo perso».

E poi cosa è successo?
«Un giorno la mia nipotina, Anna, mi ha detto: “Nonno, quando esco da scuola ti accompagno io a lavorare”. L’ha fatto per due giorni, poi le ho detto io di restare a casa: non ce n’era più bisogno».

Ma c’è qualcuno che prova a ingannarla?
«Succede spesso: vengono coi soldi falsi. E io li ritiro. In novembre è arrivato uno, mi allunga cento euro. Come li ho toccati ho tirato indietro i biglietti, e ho cominciato a urlare: “Delinquente, chiamo la polizia”. Poi è arrivato un mio collega, e lui se l’è data a gambe».

Nessuno è mai riuscito a rifilarle una banconota falsa?
«Qualche volta, purtroppo, perché mi ero distratto. Ma è molto raro eh?».

E invece di biglietti vincenti, ne ha venduti?
«Ha voglia!».

Quanti?
«Ho perso il conto. Ma tre o quattro premi da un milione di euro li ho dati via. Sicuramente alla Lotteria di Viareggio nel 2004, e ancora Viareggio due o tre anni fa. Poi Monza...».

E la Capodanno?
«Certo, anche quella».

Anche il primo premio da cinque milioni?
«No, quello mai. Per il momento».

Scusi ma come fa a saperlo?
«Perché sulle vincite più grosse prendiamo una percentuale».

Ah. Nessuno che torni a ringraziare?
«Se hanno vinto poco, diciamo premi dell’ordine dei diecimila euro, vengono. Tre o quattro volte è pure capitato che mi lasciassero cinquanta euro di mancia».

E se hanno vinto tanto?
«I vincitori grossi? Quelli non tornano mai!».

Da quanto tempo sfrega i biglietti sul ferro di cavallo?
«Da una vita. Lo faccio per scaramanzia. Tanti, si sente, sorridono di questo rito. Ma la mia opinione è che anche un sorriso porta buon sangue».

E lei, gioca?
«Dal ’54, tutte le lotterie: mi tengo l’ultimo biglietto».

E ha mai vinto?
«Macché. Però mi dà fiducia, mi dà salute. Si ricordi questa frase: “Ambo lavorare, terno continuare”».