Corruzione, Davigo boccia la legge: "Colletti bianchi ancora intoccabili"

«Il nostro è un codice spaventapasseri. Da lontano mette paura, ma visto da vicino è quasi innocuo». Piercamillo Davigo, oggi giudice di Cassazione ma vent’anni fa mente giuridica del pool Mani pulite, lo ripete da allora di Mario Consani

PIERCAMILLO DAVIGO

PIERCAMILLO DAVIGO

Milano, 11 aprile 2015 - «Il nostro è un codice spaventapasseri. Da lontano mette paura, ma visto da vicino è quasi innocuo». Piercamillo Davigo, oggi giudice di Cassazione ma vent’anni fa mente giuridica del pool Mani pulite, lo ripete da allora. Se dopo Tangentopoli la corruzione è continuata come prima, è perché, dice, la politica invece di ostacolare le mazzette ha impedito le indagini e i processi.

Dottor Davigo, la nuova legge sulla corruzione ora in Parlamento segna un’inversione di tendenza? «Sì, ma non è detto che serva a qualcosa».

Troppo morbida? «Mancano almeno due elementi. Primo: una fortissima norma premiale, con riduzione di pena o non punibilità a favore del primo che parli tra i soggetti coinvolti. Secondo: la possibilità di operazioni sotto copertura, così come già avviene invece per le inchieste su droga, terrorismo, armi, pedopornofilia. Non si capisce perché non si debba consentirlo anche per la corruzione».

Possibilità che le convenzioni internazionali prevedono. «Vent’anni fa negli Usa ci dicevano: ‘Fate davvero indagini sulla corruzione? Troppo difficile’. Sa cosa fanno loro? Il test d’integrità. Dopo le elezioni mandano agenti sotto copertura a offrire denaro ad alcuni dei nuovi eletti. Chi lo accetta viene arrestato».

Oggi in Italia il vecchio sistema si è evoluto. Più che le mazzette in senso proprio girano le consulenze di favore... «Questi sono aspetti marginali. Il cuore della faccenda è sempre lo stesso: la violazione del dovere di fedeltà da parte di un pubblico ufficiale. Sarebbe tutto abbastanza semplice. C’è un reato militare, la collusione, applicabile solo agli appartenenti alla Guardia di finanza: chiunque si metta d’accordo con estranei per frodare la finanza viene punito. Chiaro, no? Ci vorrebbe tanto a prevedere una norma di questo genere per tutti gli appartenenti alla pubblica amministrazione?».

Le norme sono molte e non chiarissime, in effetti. Ma le pene sono alte. «Ma il nostro è un codice spaventapasseri, che fa paura solo guardandolo da lontano. In realtà il sistema è costruito in modo tale per cui per certi reati in galera non si può andare. È per questo che non hanno senso i paragoni, per esempio, con altri Paesi europei. Da noi fino ai tre anni di pena in carcere non si va, in Germania se la condanna è a tre anni si scontano tutti. Per non dire degli Stati Uniti». 

Il problema - lei dice spesso - è che per la criminalità dei colletti bianchi la nostra giustizia ha un trattamento di favore. «Prendiamo il settimo comandamento: non rubare. Se lo applichiamo ai ladri normali si tratta di furto. E poiché è impossibile compiere un furto senza una o due aggravanti, le pene arrivano fino a dieci anni e si va in carcere. Se invece riguarda i colletti bianchi si chiama appropriazione indebita ed è punita con pene fino ai tre anni. Le eventuali aggravanti non incidono sulla circostanza che in carcere non si va. Vuole un esempio emblematico?»

Prego... «Quando a Torino una guardia giurata è scappata con il furgone e a bordo 5 miliardi, in Procura si sono resi conto che con una pena fino a tre anni era impossibile l’arresto per appropriazione indebita. Ma se non l’avessero fatto, c’era il rischio che qualche altra guardia prendesse esempio per la gioia delle banche...».

E allora? «Allora, considerato che la guardia aveva prestato giuramento ed era nominata dal prefetto, l’hanno considerata pubblico ufficiale e le hanno contestato il peculato. Punito più severamente e con la possibilità di arresto».

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