LIBRI A CONFRONTO DI ANTONIO CALABRO' - Il senso della vita

Scrivere della morte e del morire. Senza farne una tragedia. Ma avendo ben presente, con umanità profonda e coscienza del limite, tutto il senso del ciclo della vita

Antonio Calabrò

Antonio Calabrò

Milano, 18 aprile 2015 - Scrivere  della morte e del morire. Senza farne una tragedia. Ma avendo ben presente, con umanità profonda e coscienza del limite, tutto il senso del ciclo della vita. Sino alla fine. Elena Salem lo fa nei dieci racconti di “Puntini nell’universo”, pubblicati da Finis Terrae-Ibis Editore, con prefazione di Umberto Veronesi, che parla di “un libro coraggioso”, perché aiuta ad evitare che “la morte sia la terra di nessuno”. Ecco in pagina la storia d’una donna incontrata nell’elegante bar del Diana, discutendo d’arte e del suo elegante amante, che per mestiere cura le esequie (con una bella riflessione sul lutto e sul tempo: “Lo spazio vuoto dell’assenza si avverte solo quando tutto torna alla normalità. È allora che si rischia di sprofondare”). E la consapevolezza consolatoria che “lentamente il dolore acuto si è trasformato in un dolore dolce” (c’è qui, forse, anche l’eco di uno straordinario romanzo breve di Simone de Beauvoir, “Una morte dolcissima”). Ed ecco una lite tra marito e moglie a Shanghai, un incontro e “i numeri infiniti”. I ricordi dei campi di fiori di lavanda e le finzioni tra una madre e una figlia, colpita dalla leucemia, e comunque capace d’un gioco e d’un sorriso. L’angoscia di Gregorio Marchesi di fronte ai pochi giorni che gli restano e all’incapacità di trovare parole per raccontarlo ai figli. La vigilia del suicidio di Corrado Montecimino dall’alto d’un grattacielo. E così via continuando, con una scrittura controllata e densa, emozionata e priva di retorica, sino a concludere che “la vita è di per sè incompiuta. Arbitraria, buona, cattiva o ingiusta. Ma è quella che è. Pretendere tutto è impossibile”.

La chiave dell’umanità migliore è nell’intensità e nella consapevolezza con cui si vive, fino in fondo, il tempo dei nostri giorni. Come insegna quel libro grandissimo che è “Il Piccolo Principe” di Antoine de Saint-Exupéry, “la favola più bella del Novecento”, ripubblicato in elegante edizione blu da Sellerio con una nota di Daria Galateria ma anche, con una nuova traduzione di Beatrice Masini, da Bompiani. Libro testamento, oltre che libro di formazione. Con i disegni, la pecora, la rosa, il serpente velenoso, i pianeti, le moralità e la partenza: “Vidi solo un piccolo guizzo giallo accanto alla sua caviglia. Il piccolo principe rimase un istante immobile. Non gridò. Cadde lentamente come un albero abbattuto. Non fece neanche rumore, a causa della sabbia”. Si scompare, dallo sguardo d’una persona cara. E si resta, nei suoi ricordi. È la forza delle testimonianze, delle tracce, delle parole ben scritte. Che battono la morte. Come testimonia anche Patrick Modiano in “Via delle Botteghe Oscure”, il romanzo con cui vinse il Prix Goncourt nel 1978 (adesso ripubblicato da Bompiani, con postfazione di Giorgio Montefoschi). Un viaggio indietro nella vita, per cercare “gli essere di cui le orme si perdono” e dunque di sfuggire a quella sorta di morte che è la perdita della memoria. In scena, c’è l’anziano Pedro McAvoy Stern, che indaga su se stesso, assistito da un investigatore privato a riposo, Hutte. Ombre. Scie di nebbia. Indizi di vite vissute e dimenticate. Donne dai tratti incerti. Brandelli di ricordi. Sino a ritrovarsi a Roma, nella casa in una via dal nome suggestivo, misterioso, inquietante. Come i due racconti di Joseph Conrad raccolti in “Un avamposto del progresso”, Adelphi. L’Africa torbida del Congo dominato dalla violenza coloniale belga. Avidità e morti. Fuggitivi senza speranze, “la tenebra di un mondo di illusioni”. Storie di vita. Appunto, al confine.

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