Ponte di Pino, l’inventore di Book city: nella capitale dell’editoria si legge troppo poco

Non è un problema di prodotto: ogni anno vengono pubblicati oltre 60.000 titoli esclusi gli e-book. "Tutti possono trovare qualcosa di adatto ai propri gusti, ma c’è meno tempo di una volta e la crisi delle librerie indipendenti pregiudica la nascita di nuovi talenti" di LUISA CIUNI

Oliviero Ponte di Pino

Oliviero Ponte di Pino

Milano, 8 febbraio 2016 - Dietro al miracolo Book City, il cui programma 2016 sarà reso noto a fine mese, c’è lui. Oliviero Ponte di Pino, molti anni dell’editoria a occuparsi di libri e autori, che ne formula dagli inizi il programma con Elena Puccinelli. Con lui parliamo di libri, lettori, autori. E di Milano. «Milano è davvero la capitale dell’editoria italiana – spiega –. Qui ci sono le grandi case editrici, è appena nato il colosso “Mondazzoli”, c’è la Feltrinelli che possiede la maggiore catena di librerie, ci sono decine di piccole case editrici e altre ne nascono in continuazione. Lo è anche per quanto riguarda i consumi culturali e questo ha riflessi anche sull’occupazione, come si è visto nel recente incontro in Triennale col ministro Franceschini in cui è stata resa nota la ricerca di Ernst & Young. I numeri sono qui. E in questo contesto è nata Book City. Una manifestazione che ha fatto uscire fuori la consapevolezza di tutto ciò, un mondo che prima non riusciva ad averla. Ora Milano vede Book City come una manifestazione non solo nazionale, ma profondamente sua».

Tutto vero, ma perché il libro è così debole?

«In Italia siamo arrivati all’alfabetizzazione negli anni ’50. Basti dire che io, da bambino, ho imparato a leggere con la tv del maestro Manzi che insegnava agli adulti. Era un problema storico importante, insegnare era necessario e bisognava farlo subito. Per un periodo la scuola è stata vista come un fattore di emancipazione e si è arrivati al sistema universitario per tutti, come lo vediamo adesso. La gente aveva capito che era bene fare studiare i figli. Alla fine qualcosa si è inceppato, la cultura non è stata più avvertita come un mezzo di elevazione sociale e siamo diventati il Paese europeo dove si legge di meno. Un fenomeno che ha coinvolto anche la classe dirigente e che comporta ritardo culturale. Perché l’istruzione non è percepita come merito e non serve per fare carriera. Cultura e lettura non sono accettati come valori. Leggere è avvertito come noioso. E se una cosa è noiosa, poi la gente non la vuole, se la ritiene bella e piacevole sì».

Eppure c’è una indiscutibile richiesta di cultura, da un po’ di tempo.

«Sì, lo si vede con il festival di Mantova, con Book City, con le tante manifestazioni che hanno il libro al centro, così come con le mostre, i dibattiti. Speriamo si estenda».

Non sarà anche un problema di prodotto?

«Oltre agli e.book che hanno ulteriormente ampliato il mercato, nel nostro Paese si pubblicano una media di 60.000 titoli all’anno, una quantità di roba in cui chiunque può trovare prodotti sulla sua lunghezza d’onda. Casomai c’è un eccesso di proposte, in termini non solo di volumi ma anche di musica, film, teatro. E si suppone che non tutto faccia schifo, che si possa trovare qualcosa di buono. Perché a questo punto il problema non è l’offerta, ma il meccanismo distributivo».

Che cosa è successo?

«A mio avviso il problema più serio è la crisi delle librerie indipendenti, rimpiazzate da quelle delle catene editoriali, un fenomeno che ha fatto diminuire anche i lettori forti, quelli che acquistano tantissimi libri contro la media italiana di un titolo a testa. Poi è anche un problema di tempo libero: c’è una maggiore offerta di intrattenimento. Ergo, per la lettura resta meno tempo».

Torniamo alle librerie indipendenti.

«Chi entra in una di queste a cercare un volume magari non lo trova, ma se è bene assistito esce con un’altra cosa che forse non voleva comprare. Se, invece trova solo i libri offerti dalla catena se ne va senza spendere una lira. Nei supermarket vede una decina di titoli, non li compra. Ma era nelle librerie indipendenti che trovava (e continua in quelle che riescono a resistere) tutti i titoli a disposizione. Erano i luoghi in cui, in conseguenza, si riusciva a fare affermare i nuovi autori . I librai li facevano crescere, li diffondevano. Del resto è successo anche alla musica con la fine dei negozi di dischi. Poi c’è anche la crisi dei giornali che non riescono più a lanciare i fenomeni: i giovani non li leggono. E questo è un problema più vasto ancora. Arrivare a loro. Come? Ma la crisi delle librerie indipendenti è una cosa serissima. E bisogna trovare un antidoto».

luisa.ciuni@ilgiorno.net

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