Alcol e aggressioni, vita da latinos: "Decide il capo come nella mafia"

Il carcere, poi il recupero. Edoardo: ho denunciato e ne sono uscito di LUCA BALZAROTTI

Banda di latinos (Newpress)

Banda di latinos (Newpress)

Milano, 11 febbraio 2016 - Milano e Genova. Due città, due questure, una data: il 2004. Con l’«operazione Pandillas» partita dalla Liguria, le forze dell’ordine riconoscono la presenza di ragazzi dell’America Latina, quasi tutti adolescenti, protagonisti di reati da compiere in nome di una banda: Latin King, Comando e Neta sono le prime a farsi strada nel nord Italia. Genova e Milano - in gergo la «madre tierra» italiana - diventano città da contendersi a colpi di risse. Fermate di metropolitane, parcheggi, parchi obiettivi strategici da conquistare con la violenza. Le bande - le pandillas - hanno una struttura gerarchica con un capo adulto, riti di iniziazione e missioni: botte, aggressioni e rapine, spesso sotto l’effetto di alcol. Reclutano minorenni. Figli di madri immigrate, in Italia per lavoro, che cercano riferimenti della cultura di provenienza una volta arrivati in Italia. Le bande si dividono Milano. La mappa cambia di continuo, condizionata dalle operazioni di polizia.  Oggi si contano circa 15 pandillas con duemila militanti. La «madre tierra» non è più dominata come dieci anni fa dalle corone disegnate sui muri e dai colori gialli e neri dei Latin King, decimati dagli arresti della prima ora. «I Latin convivono con i Trebol, che si distinguono per il colore verde e il numero tre: occupano la zona di Bisceglie. Lungo la linea 15 del tram, invece, ci sono gli Ms-18: sono tra viale Cermenate e Rozzano e stanno aumentando. I loro rivali, gli Ms-13, sono stati decimati dalle retate del 2013: ora si trovano alla Comasina». A raccontare le pandillas più attive è Edoardo (nome di fantasia), 20 anni, ex Flow ed Ms-13, la banda che ha aggredito il capotreno con un machete. Dopo tre condanne, una pena sospesa con la condizionale - «se per cinque anni non faccio casini me la tolgono» - e un procedimento per associazione a delinquere da affrontare, il giovane ecuadoriano prova a cambiare vita. «Ho accettato di parlare perché tutti sappiano cosa succede. La banda ti rovina la vita».

«Questo è il tatuaggio della banda Ms-13, che sta per Mara Salvatrucha (è sulla parte interna del labbro, ndr). Questo (al collo) è il rosario. Ho tatuato le lettere della “clica”, sono come le vostre famiglie della mafia: Alcs, Alaska Locos Criminal Salvatruchos. Lo abbiamo solo in due: io e il ragazzo assolto per l’aggressione al capotreno». È stata la sua banda allora ad aggredirlo col machete... «Sì, ma io ero già uscito». Come è entrato? «Ho dovuto farmi picchiare per 45 secondi». Perché lo ha fatto? «Mi annoiavo». Milano non le piaceva? «Avevo 5 anni quando sono arrivato con la mamma. Sono cresciuto con un gruppo di sudamericani: a 13-14 anni non mi divertivo più». Chi l’ha messa in contatto con le bande? «Un amico. Sono entrato nei Flow: avevano una mentalità piccola, ci riunivamo una volta a settimana per andare a picchiare e in discoteca. Qui ho conosciuto gli Ms-13 e sono entrato da loro».  Cosa le chiedevano? «Ero il più piccolo, il capo mi proteggeva, non avevo paura di nulla. Dicevo sì, come un burattino». Si sentiva forte? «Fino al 2013 dominavamo a Milano. Ora la Ms-13 è decimata». Qual è stata la sua violenza peggiore ? «Aggredire una donna, rapinarla in zona Abbiategrasso. Il capo era in auto, io sono sceso con il secondo capo che le ha strappato il telefono: ho toccato il fondo. In macchina c’erano le cimici. In udienza mi sono vergognato pensando a mia mamma, alle due sorelle e alla mia fidanzata: è italiana». Sua madre sospettava qualcosa? «Sì, tornavo a casa ubriaco e non andavo a scuola. Ha chiesto aiuto in Comune, ma io non avevo bisogno dell’assistente sociale. Nei capi vedevo la figura di mio padre: lui se n’è andato quando ero piccolo, prima di venire a Milano. Se i capi che erano adulti mi dicevano di fare una rapina, dentro di me pensavo che non fosse sbagliato». Beveva tanto nella banda? «Qualche cassa di birra. Adesso ho chiuso». Girava droga? «Cocaina, ma solo a uso interno. I sudamericani non spacciano. Non possono competere con gli albanesi». Stupri? «Stupidate... Le ragazze sono come i maschi. Per entrare dovevano essere picchiate» Girava armato? «Con il machete per fare paura». Cos’è quella cicatrice? «Mi hanno spaccato la testa: era il settembre 2013. Poco prima della retata di ottobre». Presero anche lei? «Sì, tutti: il capo era quello a cui hanno dato 11 anni per l’aggressione al capotreno».  Dove l’arrestarono? «A casa, alle 4 del mattino. Avevo appena festeggiato i 18 anni: hanno bussato. Il cane abbaiava, mi sono nascosto nell’armadio. Quando ho capito, sono uscito: ho preparato la borsa e sono andato in questura. Ci ritrovammo in 25, tutti in carcere. Tutta la banda». Era la prima volta? «No, mi presero nel 2011. Ho fatto un anno tra custodia cautelare e messa alla prova in comunità. Ma scappai a casa. Rimasi in contatto con la banda e fu la rovina: eravamo intercettati». Nell’ottobre 2013, invece, cosa accadde? «Mi mandarono al Beccaria per quattro mesi e poi in comunità in attesa dell’udienza. Eravamo in nove: in primo grado fui condannato a tre anni per aggressioni e rapine. Sono uscito dal carcere nel febbraio 2014, sono rimasto in comunità fino al gennaio 2015 e poi in un appartamento controllato». Si sentiva meglio? «Alti e bassi». La difficoltà più grande? «Rispettare le regole. A volte non è successo». Quando? «A giugno. Un sabato sera organizzai una festa con 15 sudamericani, donne e birre. Luca, il mio educatore, mi ha scoperto». Adesso dove vive? «Con mia mamma e le mie due sorelle, ma presto vorrei abitare con la mia fidanzata. Cerco lavoro. Ho una qualifica Asa e vorrei lavorare in una casa di riposo: è una realtà che conosco, ho già fatto il volontario». Quando ha chiuso con le bande? «Nel 2013 mi ero allontanato. Ma ho detto basta del tutto quando ho denunciato». Chi? «Gli amici dei primi anni milanesi. Avevano legato mani e piedi al ragazzo che avevano inserito insieme a me nell’appartamento della comunità. Lo avevano massacrato: il sangue era finito sui muri». Come reagisce ora quando vede una banda in giro per Milano? «Con dispiacere. Ora so che è come far parte della mafia. Prima o poi finisci in galera».  (1- continua)

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