Gli imam e le femministe con il velo: "Stop alla violenza contro le donne"

Progetto senza precedenti del Caim. Corsi per famiglie e religiosi di GIULIA BONEZZI

CAMPAGNA Una vignetta di Takoua Ben Mohamed, in mostra a Palazzo Isimbardi

CAMPAGNA Una vignetta di Takoua Ben Mohamed, in mostra a Palazzo Isimbardi

Milano, 6 marzo 2016 - «Sposerò chi vorrò». «Non si tocca neanche con un fiore». «Se ti dicono che è Islam, mentono: chi ti picchia e non ti rispetta non ti ama». «Se ti dicono che sei fallita, non credergli». «Se ti dicono che i tuoi sogni sono follia, sbagliano». Le frasi s’infilano una dietro l’altra, nelle vignette di Takoua Ben Mohamed esposte a Palazzo Isimbardi e in un video, pronunciate da donne, velate e no, da uomini, da un imam, nelle molte lingue dei musulmani e in italiano. Domenica prossima lo faranno le bici del BikeMi, dal fondo di via Padova a Porta Venezia: messaggio chiaro dopo la polemica innescata da un’intervista (ritrattata) all’imam di Segrate. Viene da un’ala “femminista” cresciuta a Milano sotto il hijab, e agguerrita nel voler emergere dentro il mosaico vasto dell’Islam italiano.

Ed è un progetto contro la violenza sulle donne, ma anche contro la discriminazione che le costringe dentro le mura domestiche, a matrimoni indesiderati, a non studiare, alla svalutazione dentro la coppia e la famiglia. Si chiama Aisha e qualcuno dice che è «storico», certo è senza precedenti in Italia perché nasce dentro una comunità musulmana, anzi il Caim, coordinamento di 27 moschee e centri islamici tra Milano e la Brianza, pilota per iniziative gemelle da sviluppare altrove («E siamo già stati contattati da più di dieci realtà, anche dal Sud»). Con il patrocinio di Città metropolitana, Comune e Palazzo Chigi, e con l’appoggio dell’Associazione islamica italiana degli imam e delle guide religiose, nata nel 2011 proprio «per dare impulso a una religiosità che non sia ostaggio di retaggi culturali e interpretazioni estremiste» dei testi sacri «che fanno da paravento a comportamenti sbagliati».

Non si nasconde, il progetto, dietro il fatto incontrovertibile che discriminazione e violenza contro le donne siano tutt’altro che un’esclusiva dei musulmani, ma riconosce che un problema c’è; e il coordinatore del Caim Davide Piccardo spiega che nell’anno trascorso da quando è partita l’idea (ben prima dei fatti di Colonia) «ci sono state discussioni non tanto sul rifiuto della violenza, ma sulle modalità» per affrontarlo «senza paura di essere equivocati, criticati anche dall’interno e strumentalizzati». Il progetto parte senza grandi finanziamenti («Stiamo studiando i bandi») ma con intenzioni ambiziose, illustrate dalla scrittrice e sociologa Sumaya Abdel Qader che lo coordina. «Sensibilizzazione», con campagne e incontri pubblici; «Assistenza e prevenzione», lavorando con la rete antiviolenza già esistente a Milano (la psicologa Nadia Muscialini, fondatrice del Soccorso rosa dell’ospedale San Carlo, ricorda le difficoltà di molte donne ad accedere ai servizi, «anche a causa di pregiudizi degli operatori»), preparando mediatori culturali ma anche persone di riferimento in ogni moschea.

E formazione: corsi di affettività e parità per i giovani, corsi prematrimoniali, incontri coi genitori per prevenire matrimoni forzati e mutilazioni genitali, corsi per insegnare agli imam «a riconoscere le diverse forme di violenza e ad agire nel modo giusto», corsi per i fedeli. In cui gli stessi imam propongano una lettura della dottrina che superi «i retaggi culturali che le si sono sovrapposti» e «l’avvilente letterismo che ha preso il sopravvento su quella che, all’epoca della Rivelazione, era una spinta liberatoria nei confronti delle donne», spiega la teologa Patrizia Khadija Dal Monte. E racconta che la vedova di Maometto Aisha, una dei primi giuristi della storia, non aveva problemi a correggere nemmeno i fedelissimi del Profeta, su questo. Per lei si chiama così il progetto. E perché in arabo vuol dire «colei che è viva», «che ha diritto alla vita».

di GIULIA BONEZZI

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