Terrorismo islamico, i due volti del pakistano Aftab / AUDIO

La famiglia del presunto jhadista, espulso lunedì dall'Italia: "Aftab è innocente, non è un fondamentalista". Ma per la Procura giustificava il terrorismo

Aftab Farooq, il ragazzo espulso

Aftab Farooq, il ragazzo espulso

Vaprio D'Adda (Milano), 2 agosto 2016 - "Aiutateci. Mio marito è innocente". Munaza Farroq, 21 anni, faccia da bambina e grinta da donna per riabbracciare il suo Aftab, il pakistano espulso con decreto firmato dal ministro dell’Interno Angelino Alfano "perché pericoloso per la sicurezza dello Stato", sarebbe disposta a tutto. Per lei da venerdì, quando i Ros e i carabinieri del comando provinciale di Milano hanno fatto irruzione nell’appartamento che condivideva con il marito, la vita si è fermata. "Avevamo appena fatto gli esami per avere dei figli, a settembre dovevamo andare in vacanza in Marocco. Meta: Casablanca e le città imperiali". Sventola i biglietti. "Vi sembrano programmi da jihadisti? Aftab è credente, ma non fondamentalista. Fa i turni, se il venerdì lavora, non va neanche a pregare in moschea (a Zingonia, ndr). Ha sempre condannato il terrorismo".

È una difesa a tutto tondo, la sua, che fa il paio con quella del suocero, Muhammad Farooq, 57 anni. Parla e piange, le lacrime gli bagnano la maglietta arancione. È appena tornato di corsa dal Municipio, dove è andato a sfogarsi con il sindaco Andrea Benvenuto Beretta. "Lo Stato ha preso un granchio. Mio figlio è un pezzo di pane. Se vede il sangue, sviene. Se una formica attraversa la strada, si ferma". Nella casetta di via San Francesco 8, dove l’aspirante combattente è cresciuto, regna un’atmosfera irreale. Incredulità e paura non incrinano la certezza che "lui non c’entri nulla con le accuse che gli hanno mosso. Sono cittadino italiano - racconta papà Mario, nome che si è scelto da tempo -. Amiamo questo Paese, ci sono venuto nel 1997 per dare un futuro migliore ai miei piccoli. E così è stato, fino a questo incubo. Aftab è un ragazzo della sua età, ha 26 anni. Bravissimo a scuola".

Faceva proselitismo fra le mura domestiche, per la procura, dopo il giuramento al Califfo si stava radicalizzando. La moglie per gli inquirenti era il suo primo obiettivo. "Neanche per sogno – replica Munaza – mio marito mi ama. Mi picchiava? Non si sarebbe mai sognato di farlo. Grazie a lui parlo italiano senza difficoltà, ho ripreso gli studi. Sognava per me un lavoro nel quale potessi realizzarmi". Anche Aftab ha preso il pezzo di carta, è geometra diplomato a Gorgonzola, poi si era iscritto all’università, a Bergamo. Scienze sociali. «Ma ha trovato lavoro e ha lasciato», ricorda il padre. "Io avrei preferito che si laureasse, ma lui voleva una famiglia". Ed è così che ha accettato il posto di magazziniere in un negozio di articoli sportivi della zona. Tre anni fa le nozze con la sposa-ragazzina. Questione di culture. Era assunto a tempo indeterminato, Aftab. I colleghi in queste ore gli hanno espresso solidarietà in blocco. Sono senza parole: "Impossibile che sia vero". Prima di timbrare il cartellino, aveva portato a termine il servizio civile in Comune. Poi ha continuato per conto proprio da volontario con anziani e disabili. Portava pasti, li accompagnava in montagna. La sua grande passione. A Tenerife, o sulla Bergamasca, non faceva lo schizzinoso, dove c’era una meta da scalare, si metteva in marcia. Una metafora del percorso, secondo gli inquirenti, che avrebbe fatto anche con la religione.

Da tiepido a estremista, questo raccontano intercettazioni e indagini alle quali era sottoposto da tempo. Una conferma che il lineare percorso di vita raccontato dalla famiglia si fosse incagliato, arriva dalla pratica di cittadinanza. Come il padre, anche Aftab era a un passo dall’ottenerla. A maggio, il decreto a suo nome firmato dal presidente della Repubblica si è arenato. La Prefettura non ha più notificato il nuovo status al Comune, evidentemente per la piega che avevano preso gli eventi. "Mio marito naviga su internet per informarsi, è un uomo curioso, lo fanno tutti», insiste la moglie. Ma per carabinieri e procura Aftab "aveva giustificato gli attacchi di Parigi come legittima reazione ai raid francesi in Siria e Iraq contro l’Isis". Un altro segnale della svolta, in quel percorso che l’avrebbe portato a progettare un attacco a una enoteca. "Non è possibile, credetemi", dice Muhammad mentre scuote la testa e non si dà pace per quel figlio perduto "prima che si provi la sua reale colpevolezza. Credevo che il mio fosse un Paese civile, ma il modo in cui me l’hanno strappato, mi induce a ricredermi".

La madre del combattente non c’è, è partita un mese fa per il Kashmir, dove ha portato conforto ai parenti rimasti in patria dopo un grave lutto. Non sa che stanotte un aereo da qualche parte non molto lontano da lei, è atterrato con il suo ragazzo a bordo. "Rischiamo di non rivederlo mai più. In Pakistan non c’è legge, se lo prendono i servizi segreti, sparirà nel nulla. Mia moglie non l’ha neanche abbracciato per l’ultima volta". Ma è in odore di terrorismo. "Ha sempre condannato quegli assassini che seminano morte. Noi musulmani siamo i primi a rimetterci quando scoppiano le bombe, o si spara. La storia di Aftab ne è la prova".