Trezzo dell'Adda (Milano), 27 febbraio 2017 - «In un attimo ti rubano il futuro». Dopo 34 giorni di lotta, gli operai della K-Flex di Roncello si raccontano. Accampati in tenda, vivono nel piazzale di via Da Vinci: giorno e notte, senza requie. Per tenere d’occhio la fabbrica, per evitare che vengano trasferiti macchinari, hanno organizzato turni, come se lavorassero. Le squadre si alternano ogni otto ore. «Non volevamo che tagliassero la corda sotto al nostro naso», spiegano. Magazzinieri, trafilatori, addetti alle mescole: sono tutti qui, giorno dopo giorno, ora dopo ora. Sconvolti dalla prospettiva di ritrovarsi con un pugno di mosche in mano, dopo anni di sacrifici, hanno scelto «la strada più dura». Sono 187 i licenziamenti previsti su 250 addetti a Roncello. «Vogliono delocalizzare in Polonia», spiegano amaramente i lavoratori.
La delusione è il sentimento dominante. Emerge dalle parole di ciascuno dei 187 in bilico. «Devo pagare la mensa di mio figlio, mi è arrivato il sollecito del Comune, ma sul conto corrente ho quattro euro. Non riesco più a dormire». Francesco Amaro ha 49 anni, è separato e un bambino di otto da crescere. «E' una batosta tremenda. A questa gente noi abbiamo dato tutto». Mohamed Chabri, 52 anni, di figli ne ha tre e in casa lavora solo lui. La moglie bada alla famiglia. «Sono stato sei mesi in Turchia in trasferta, a insegnare il mio mestiere agli apprendisti». E’ uno dei tanti stranieri in azienda. «Da noi convivono 31 etnie, siamo un piccolo esempio di integrazione dove tutto funzionava perfettamente. Fino alla tegola dei licenziamenti in massa», sottolinea Mohamed Mouddou, 51 anni. Due figli di 14 e 16 anni e la cittadinanza italiana in tasca, come quasi tutti i colleghi arrivati da lontano. La maggior parte dall’Africa, Senegal e Marocco. Gennaro De Vivo, 50 anni. La prima volta che ha varcato la soglia del capannone era ragazzo. «Li abbiamo aiutati ad aprire in Cina, in Malesia, a Dubai, in Russia. Credevamo fosse una garanzia anche per noi e invece oggi ci buttano via come ferri vecchi. E’ una vergogna».
Raffaella Barbarossa ha 54 anni, è vedova. «Forse, io me la caverò. Mi mancano tre anni alla fine. Non è per me che sono preoccupata, ma per gli altri: che ne sarà di loro?», si chiede dall’inizio della vertenza. Ha poche speranze Maria Anna Patella, 46 anni, sposata. «Sono qui da quasi 20 anni, non mi sarei mai immaginata che potessimo ritrovarci in questa situazione. Noi abbiamo fatto più del nostro dovere». «Non stiamo recitando una parte – dice Enrico Ferrario, 44 anni, dell’Rsu –. Non ci fermeremo, finché non vedremo riconosciuti i nostri diritti. Questi posti ci spettano». Parole pesanti mentre si apre un’altra lunga settimana, in attesa dell’incontro a Roma. Il viceministro Teresa Bellanova ha convocato le parti venerdì. Obiettivo: disinnescare la bomba sociale.
I sindaci, senza differenza di colore politico, ne sono consapevoli e si sono schierati dalla parte dei lavoratori, contro il Gruppo che «ha ricevuto aiuti statali e che oggi delocalizza». «Inaccettabile», commenta per tutti il primo cittadino Luca Signorile. Sabato l’hanno detto in 25, con la fascia tricolore in spalla. Ai cancelli, anche loro, come gli esuberi del colosso che fattura 320 milioni l’anno «e che non sa cosa sia la crisi».