Milano, 16 febbraio 2014 - «Una guerra dei soldi e per i soldi, dove i frontalieri rischiano di diventare carne da cannone, merce di scambio, se non si mettono in fila tutte le questioni». Così vedono le cose dalle sedi delle Acli di Como, in via Brambilla 35, storicamente (da cinquant’anni) quartier generale dei frontalieri, con le battaglie condotte da «Pedro», all’anagrafe Giancarlo Pedroncelli, segretario del Coordinamento regionale frontalieri Acli nonchè sindaco di Cucciago dal 1975 al 2004. A una settimana dal referendum con il quale gli svizzeri hanno intimato il loro «raus» o «foera di ball» come diceva Bossi ad altri immigrati più a sud di noi, le preoccupazioni restano altissime. Sì perchè, spiega Luisa Seveso, presidente provinciale delle Acli comasche «gli svizzeri dovranno trovare una via d’uscita onorevole, l’economia non ha bisogno di muri, e le banche sono troppo forti e importanti e faranno pressioni».

Non solo. Quando si dice frontalieri si pensa solo al dipendente che si alza la mattina alle cinque per andare a lavorare a Lugano. Sbagliato. L’orario resta infame, ma alla mattina presto dalla Stazione Centrale di Milano, o da quella di Genova, partono anche «manager in giacca e cravatta» che — spiega Silvia Camporini, altro pilastro delle Acli di Como, responsabile del Caf — non si spostano certo per «pochi euro». Frontalieri «fuori fascia», così li chiamano. E cominciano a essere un esercito. «Per loro c’è la trattenuta alla fonte ma non il ristorno». 

Ed ecco il tema attuale: i ristorni. Su questo si incentrerà il braccio di ferro che andrà in scena a ottobre, dal momento in cui scadranno gli accordi quarantennali stipulati con gli svizzeri e si dovranno scrivere nuove regole, presumibilmente favorevoli anche al Belpaese, poichè con i soldi dei ristorni i comuni di confine ci pagano un bel po’ di servizi, dagli asili al rifacimento delle fogne. Sono 80mila i lavoratori frontalieri italiani, ai 60mila delle zone di Como, Varese e Verbano Cusio-Ossola e Sondrio, si devono aggiungere anche i 6mila che, per esempio, dall’Emilia o dalle Marche vanno a lavorare a San Marino, o anche, i 3.700 che giornalmente dalla provincia di Imperia si recano a lavorare nel Principato di Monaco e in Francia. San Marino non è la Svizzera e non lo è nemmeno il Principato di Monaco ma il problema è che, fa notare Fulvia Colombini, della segreteria Cgil Lombardia «nonostante la rilevanza del fenomeno il nostro Paese non dispone di una specifica disciplina legislativa in grado di riconoscere il valore del lavoratore frontaliero».

Da qui la richiesta avanzata al Governo dai sindacati lombardi e dalle Acli, appoggiata anche da un gruppo di parlamentari, di un tavolo di confronto con l’obiettivo di predisporre l’impianto di uno Statuto dei lavoratori frontalieri «utile alla ripresa dei negoziati, in grado di produrre accordi bilaterali con i Paesi di confine che prevedano una specifica e appropriata disciplina del lavoro e una regolazione del trattamento fiscale». Già perchè adesso il fisco italiano e quello svizzero non si «parlano» mentre serve in Europa una disciplina fiscale condivisa. «Lavoreremo per quello», conferma Francesca Brianza, presidente della Commissione speciale Rapporti Lombardia e Confederazione Elvetica che si riunirà giovedì per un focus sui ristorni.