2009-07-17
di ANNA MANGIAROTTI
— MONZA —
AMONZA, l’homo provincialis assume un carattere un po’ prussiano, o longobardo. Per chi ha scelto di chiamarsi Morgan come un pirata, difficile abitarci?
«Mi piacciono le difficoltà. E Monza non è una città difficile, è una difficoltà».
Perché?
«Perchè è fondamentalmente, diciamo non particolarmente, aperta. Non ha fondato sull’apertura mentale la sua traiettoria pubblica».
Per forza, è sempre stata sulla difensiva. Con Milano impegnata a minacciarla, assorbirla...
«Per fortuna, Milano è a pochi chilometri. E riverbera la sua vivacità, la cultura. Che è la sola cosa che m’interessa. Come dire, il bel vivere, la serenità, la pace. Che non è ordine, ma bambini che strillano. L’ordine è inquietante, militare, è la morte. Invece, a Monza dicono: che bello il coprifuoco! Che bello che non c’è in giro nessuno!».
E lei che dice?
«Che è bello, certo, andare in giro tranquillamente in bicicletta, a comprare le sigarette. Lo faccio tutte le notti».
Le piste ciclabili, almeno, non mancano.
«Sono quelle idee del comunismo del ca...o, realizzate dall’ex sindaco di centrosinistra Michele Faglia. Ma poi se le godono anche i berlusconiani, che hanno in mente solo le fioriere davanti ai negozi di vestiti».
Che cos’è bello davvero?
«L’architettura, la natura. Che i monzesi non sono neppure capaci di valorizzare. Prendiamo la Villa Reale, il parco immenso. Affascinanti specie botaniche, rarità esotiche. Gli alberi dei tulipani, il cipresso calvo, la farnia. Nel roseto, un concorso internazionale per le rose nuove. Altrimenti, domina l’idea di essere contenti così come si è, non voler cambiare le cose».
Prendiamo il tesoro del Duomo, o di Teodolinda: croci, gioielli, la chioccia con i sette pulcini, le ampolline palestinesi del VI secolo. Abbastanza per essere contenti.
«Prendiamo la Corona Ferrea: diadema di Carlo Magno, Barbarossa, Napoleone. Trasferita, rubata, requisita. Nell’800 gli austriaci la restituirono ai monzesi non perché legittimi proprietari, ma perché l’avrebbero ben custodita. Erano già famosi per non saper fare pubblicità».
Sono scrupolosi, sobri, riservati.
«Conservatori. Come lo è ogni società altoborghese, imprenditoriale, capitalistica. Che va sempre in senso inverso alla società della cultura. Il problema di Monza non risiede tanto nel luogo, ma nel mettere insieme le persone nel luogo. Perché gli stessi, in altro luogo, diventano creativi».
Come lei?
«Io mi differenzio dall’umanità stessa. Questo è il motivo per cui riesco tranquillamente a vivere in una città che piccolezze ne sa esporre molte e grandezze rinchiuderne altrettante».
Per capire «l’impreciso ragazzo», la persona Marco Castoldi e il personaggio Morgan, meglio affidarsi alla biografia «In pArte Morgan» (Elèuthera), curata da Mauro Garofalo. Qui, ci spieghi solo la sua anarchia.
«Mi professo anarchico! Poi esistono vari modi di esserlo. Io non l’ho mai fatto in maniera socialmente incanalata. Credo però che, oggi, se c’è un concetto su cui non si può chiudere un occhio, è proprio l’anarchia. Per me, l’anarchico Gaetano Bresci è un esempio da seguire, tanto che il titolo del mio album “Da A ad A” sarebbe dovuto essere “Quando l’anarchico Bresci passò per Monza”, dove nel 1900 uccise con tre colpi di pistola il re Umberto I».
Intanto, la sua sovversione è estetica: il fiocco alla lavallière, cravatta usata spesso dagli anarchici. Un modo per abbottonarsi. Lei osserva le regole.
«Certo, le inattuali “Regole di vita musicale” di Robert Schumann. Non affidarsi alle melodie che si capiscono al primo ascolto».
Dove Monza è più inattuale?
«Nella bellissima piazza del Carrobiolo, o allo Spalto Santa Maddalena, dove il Lambro si sdoppia e forma un’isola, e si attraversa il Ponte dei Leoni».
Monza à la Morgan. Confessi che il fare come atto creativo l’ha imparato qui.
«L’interesse per la proporzione degli oggetti, per la perfezione delle piccole cose, sì, viene da quando facevo modellini di divani nella fabbrica di mio papà».