Lidia Macchi, il dna scagiona Piccolomo. Trent'anni dopo resta il mistero

I test hanno accertato che il codice genetico dell’indagato non coincide con la traccia rimasta su un bavero della giacca della vittima e neppure con il dna estratto dalla «linguetta» di una busta recapitata alla famiglia la mattina del 9 gennaio dell’87, il giorno dei funerali di Lidia di Gabriele Moroni

Lidia Macchi, 21 anni al momento della morte, attende giustizia dal gennaio 1987

Lidia Macchi, 21 anni al momento della morte, attende giustizia dal gennaio 1987

Varese, 29 agosto 2015 - «Sono diventato musulmano. Sto osservando il Ramadan». Con questa singolare motivazione Giuseppe Piccolomo ha rifiutato di sottoporsi al tampone salivare per l’estrazione del dna. Era delle consulenze disposte dal sostituto procuratore generale di Milano, Carmen Manfredda, che nell’ottobre del 2013 ha riaperto le indagini sull’omicidio di Lidia Macchi, la studentessa varesina di Comunione e Liberazione trovata il 7 gennaio 1987, in un bosco alla periferia di Cittiglio, trucidata con ventinove coltellate. Piccolomo, 65 anni, ex imbianchino di Ispra, è l’unico indagato del «caso» Macchi, oltre a scontare l’ergastolo per l’omicidio delle «mani mozzate», la morte della pensionata Carla Molinari, uccisa nel novembre del 2009 durante una rapina nella sua abitazione a Cocquio Trevisago e mutilata delle mani.  La procura generale era pronta a procedere in maniera coattiva, ma non è stato necessario. Un tampone salivare di Piccolomo, rilasciato all’epoca dell’omicidio Molinari, è stato rintracciato nel laboratorio di biologia della polizia scientifica di Torino. I test hanno accertato che il codice genetico dell’indagato non coincide con la traccia rimasta su un bavero della giacca della vittima e neppure con il dna estratto dalla «linguetta» di una busta recapitata alla famiglia la mattina del 9 gennaio dell’87, il giorno dei funerali di Lidia. L’esame era stato chiesto dall’avvocato Daniele Pizzi, legale dei Macchi. La busta conteneva uno scritto anonimo con un titolo, «In morte di un’amica», zeppo di citazioni in latino e descrizioni che avrebbero potuto essere associate alla scena del delitto. Sono state analizzate 85 formazioni pilifere analizzate: una trentina sono di natura animale (Lidia possedeva un cagnolino), per le altre si tratta di capello dei familiari. Le consulenze hanno visto impegnati Carlo Previderè, responsabile del laboratorio di genetica forense dell’università di Pavia, l’assistente Pierangela Grignani, il biologo Roberto Giuffrida, responsabile del gabinetto regionale di polizia scientifica di Milano. Sono passati al loro vaglio anche un bavaglino, alcuni fazzoletti, un sacchetto, tutti reperti rinvenuti sulla Fiat Panda di Lidia, frammenti di terriccio sporchi di sangue, due siringhe, giornali, riviste pornografiche, trovati sul luogo dell’omicidio.  L’avvocato Pizzi ha chiesto di acquisire dal tribunale di Varese i reperti sfuggiti a una incredibile serie di smarrimenti e distruzioni. Le intercettazioni (non di tutte vennero eseguite le trascrizioni e ci si affidò a brogliacci redatti dai carabinieri). Il filmato dei funerali. Un frammento di filo elettrico. Un paio di scarpe da tennis. Una tuta da ginnastica.