Omicidio Lidia Macchi: "Un’altra lettera, è di una donna". La pista del complice

Spedita ai genitori di Lidia. "L’assassino è tra chi la trovò nel bosco" di GABRIELE MORONI

Lidia Macchi aveva 21 anni quando fu uccisa

Lidia Macchi aveva 21 anni quando fu uccisa

Varese, 18 gennaio 2016 - La lettera viene recapitata nell’abitazione di Lidia Macchi poco tempo dopo, circa un mese, l’omicidio della studentessa di Comunione e Liberazione. La firma è «Una mamma che soffre». Chi scrive dice che la sua è una scrittura automatica, che si è fatto guidare la mano dallo spirito della ragazza assassinata. «Chi mi ha ucciso è uno di quelli che mi hanno ritrovata», «detta» Lidia. È la seconda lettera anonima del caso Macchi. La prima è quella con lo scritto «In morte di un’amica», recapitata alla famiglia il 9 gennaio del 1987, il giorno dei funerali di Lidia. Lo scritto che la consulenza calligrafica ha attribuito a Stefano Binda, portando in carcere il quarantottenne laureato in filosofia, amico di Lidia, suo compagno di liceo classico e di militanza in CL a Varese. La lettera della presunta mamma in sofferenza è stata analizzata. Ne è stato ricavato un Dna femminile. Una beffa orribile a una famiglia immersa nel dolore? O qualcosa di più oscuro? Forse il tentativo di un complice (o meglio di una complice) di decentrare i sospetti indirizzandoli sugli autori del ritrovamento del corpo di Lidia, straziato da ventinove coltellate. Quando maturò la certezza che Lidia era scomparsa, gli amici si riunirono davanti all’abitaziome dei Macchi, al quartiere Casbeno a Varese, si divisero in piccole squadre e avviarono le ricerche. Furono tre di loro, due ragazzi e una ragazza, a ritrovare la Panda dell’amica poco prima delle 10.30 del 7 gennaio: era ferma in una strada sterrata, nei pressi di una cava e di un cementificio, alla località Sass Pinìn, nel territorio di Cittiglio. Nei pressi il corpo prono di Lidia, coperto da un grosso cartone. Sul possibile epilogo della vicenda Macchi aleggia l’ombra di una o più complicità. Un dubbio alimentato da un particolare per nulla trascurabile. Dalla «linguetta» della busta che conteneva il brano «In morte di un’amica» è stato ricavato il Dna: il profilo biologico non è quello di Stefano Binda, l’uomo in cella per omicidio pluriaggravato, a cui le indagini hanno attribuito la paternità di quello scritto, colto, con citazioni latine, denso di suggestioni, di richiami alla religione, ma anche di riferimenti precisi alla scena di un delitto in una notte invernale. Il sostituto procuratore generale Carmen Manfredda, protagonista della riapertura giudiziaria della vicenda Macchi, ne ha affidato l’esegesi alla psicoterapeuta Vera Slepoj e al criminologo Franco Posa, esperto in neuroscienze. Lo scritto è organizzato in strofe. Secondo Slepoj è dedicato a una persona conosciuta dall’autore.  Nel primo gruppo di versi la morte, certamente violenta («lo strazio delle carni») è definita come non voluta e determinata dal destino. Chi scrive è persona religiosa o che si occupa di tematiche religiose (il riferimento all’Uomo della Croce). Lo scrivente si vive come «oggetto di un rifiuto» che definisce «grande». Ne è scaturita «la guerra di sempre», forse come consequenzialità del rapporto uomo-donna. «Perché io, perché tu?» si chiede l’autore all’inizio della terza strofa, come un interrogativo incredulo. Poi la descrizione dell’assassino avvenuto nella notte invernale, sotto un cielo stellato. Una violenza preventiva ha preceduto l’omicidio: «il velo strappato» è un chiaro riferimento alla verginità violata. Domani, nel carcere di Varese, l’interrogatorio di garanzia di Stefano Binda.

di GABRIELE MORONI