Giovedì 25 Aprile 2024

LIBRI A CONFRONTO DI ANTONIO CALABRO' La lotta alla mafia. Pagine di sangue ed eroi

I morti per mano di mafia. E la protesta. L’inquinamento di politica, economia, società. E le risposte di istituzioni e vigile coscienza civile. La dialettica è forte, spesso drammatica. Vince lo Stato, ma in una partita, purtroppo, ancora aperta (e allargata, da Milano a Roma...). Guardiamo tra le pagine, per capire meglio di Antonio Calabrò

Libri a confronto di Antonio Calabrò

Libri a confronto di Antonio Calabrò

Milano, 13 dicembre 2014 - I morti per mano di mafia. E la protesta. L’inquinamento di politica, economia, società. E le risposte di istituzioni e vigile coscienza civile. La dialettica è forte, spesso drammatica. Vince lo Stato, ma in una partita, purtroppo, ancora aperta (e allargata, da Milano a Roma...). Guardiamo tra le pagine, per capire meglio. «Ciò che inferno non è» s’intitola il libro Mondadori che Alessandro D’Avenia dedica alla storia di padre Pino Puglisi, assassinato dalla mafia nel settembre 1993. È un libro forte, sino ai confini dell’enfasi. Barocco, per dare conto d’una città eccessiva e della durezza della marginalità (il quartiere di Brancaccio, di cui padre Puglisi è parroco, è lontano dalla Palermo d’un ceto medio arricchito e spesso ipocrita, convinto che «la mafia sono gli altri»). Tagliente. E straziato, man mano che ci si avvicina al giorno dell’omicidio. Perché padre Puglisi vuole dimostrare che in terra di capi mafia e “malacarne”, si possa “girare a testa alta”, rifiutare illegalità e soprusi, trovare spazio per una scuola, un campo di calcio, un ritrovo per sottrarre i bambini alla mala educazione alla violenza. Ad aiutarlo, un gruppo di ragazzi, come Federico, liceale di famiglia benestante, il protagonista del racconto. A contrastarlo, i boss locali e il loro killer preferito, “il Cacciatore”. Attorno, un impasto di complicità e omertà. Sino alla tragedia. Di padre Pino resta una forte memoria, un esempio religioso e civile. Dei mafiosi, invece, l’infamia. Come storia conferma, peraltro. Quella dei 50 sindacalisti assassinati dalla mafia in Sicilia negli anni delle lotte per la riforma agraria, tra il 1944 e il 1948 e finalmente ricordati dal volume «Una strage ignorata» curato dalla Fondazione Altobelli e dalla Fondazione Turati ed edito da Agra (con saggi di Pierluigi Basile, Diego Gavini e Dino Paternostro). O quella di Pio La Torre, dirigente del Pci, ucciso nell’aprile 1982 e di cui le Edizioni di storia e studi sociali pubblicano i discorsi parlamentari, in un volume intitolato “Pio La Torre legislatore contro la mafia”.

Ecco qui, un punto fermo: la legge Rognoni-La Torre per colpire la mafia nelle sue ricchezze. Legge importante, migliorata nel tempo. E alla cui applicazione Marella Caramazza, studiosa di organizzazione aziendale, dedica un libro attento e ben documentato, “Le aziende confiscate alla mafia”, edito da Guerini. La tesi, tratta da un impegno di Assolombarda, Aldai e Fondirigenti, è che i patrimoni sottrati ai mafiosi vanno gestiti, fin dal sequestro, sotto il controllo dell’autorità giudiziaria, da manager esperti e competenti, per salvare (quando si può) ricchezze e posti di lavoro, usare i beni per pubblica utilità e mostrare che “la mafia dà pane e morte” ma la mano dello Stato e della corretta economia di mercato assicura un migliore sviluppo. Lo Stato è anche un buon lavoro della Giustizia. Come raccontano Marzia Sabella, a lungo sostituto procuratore della Repubblica a Palermo, e Serena Uccello, brillante giornalista de “Il Sole24Ore”, in “Nostro Onore–Una donna magistrato contro la mafia”, Einaudi. Indagini e routine quotidiana. Gli arresti di Provenzano e dei complici dell’ultimo boss latitante, Matteo Messina Denaro, e le tensioni dentro Palazzo di Giustizia, la “vita blindata” e le complicità dei “colletti biasnchi”, il ricordo dei giudici uccisi (Falcone e Borsellino) e l’impegno a non cedere. Pagine scabre, severe, sincere. Con uno sguardo particolare. Di donna, appunto. Che alla mafia dà particolare fastidio.

di Antonio Calabrò