Commozione ai funerali di Luigi Caironi, folla in chiesa / FOTO

Nella chiesa del Redentore rappresentanti del Comune, i vertici della Famiglia Legnanese e tanti cittadini

Monsignor Angelo Cairati porge le condoglianze alla signora Marisa, moglie di Caironi

Monsignor Angelo Cairati porge le condoglianze alla signora Marisa, moglie di Caironi

Legnano (Milano), 16 febbraio 2017 - Idealmente l’intera città, rappresentata dall’amministrazione comunale e dai vertici della Famiglia Legnanese, che ha diretto per diversi decenni, si è stretta attorno alla famiglia di Luigi Caironi nell’ultimo saluto alla salma prima della sepoltura. I funerali si sono svolti nella chiesa del Redentore, stipata in ogni angolo.

Caironi, che ha lavorato per molti anni alla Banca di Legnano, aveva raccontato non più tardi dello scorso anno, in occasione della Giornata della Memoria, gli episodi che lo videro protagonista dopo l’Armistizio e la conseguente deportazione in Germania, già peraltro testimoniati in alcune pagine di libri di storia locale. Caironi, nato del 1923, l’8 settembre del 1943 si trovava a Guastalla. Faceva parte del secondo reggimento pontieri ed aveva l’obiettivo di difendere i ponti sul Po dall’avanzata anglo americana. Il suo reparto venne fatto prigioniero dai tedeschi. Fu prima trasferito a Mantova e poi in Pomerania, nello Stammlager II B di Hammerstein. Raccontò allora Caironi: "Fummo abbandonati in un cortile coperto di neve, poi ci spogliarono per un’ispezione. Avevo ancora il portafoglio, la catenina d’oro, una penna col pennino d’oro e la mia pistola con otto colpi nel tamburo. Ero deciso a non farmi portare via la mia roba, così la nascosi nella neve. Se non ci avessero fatto muovere avrei recuperato tutto più tardi. Tenevo soprattutto alla pistola. L’ultimo colpo l’avrei tenuto per me, ma con gli altri sette avrei venduto cara la pelle. Mi andò bene e riuscii a recuperare tutta la mia roba. Nel nostro settore c’erano quattro capannoni con mille prigionieri ciascuno. Nel centro c’era una torretta con fari e mitragliatrici, su tre lati altrettante latrine. Da mangiare ci davano una minestra fatta di rape e di brodo di pecora". Grazie alla sua conoscenza della lingua tedesca, che aveva studiato all’istituto Dell’Acqua, si fece passare per contadino e lavorò in una fattoria nei dintorni di Danzica: qui potè avere un’alimentazione migliore rispetto a quella dei suoi compagni tenuti al campo. Alla fine della guerra, nella primavera del 1945, evase dal campo. Venne intercettato da una pattuglia americana che consegnò lui e gli altri italiani che erano al campo ai russi. 

Dopo due giorni fummo consegnati ai russi – disse Caironi in quell’occasione -. Avrebbero dovuto riportarci in Italia, invece dal momento che avevano bisogno di manodopera ci deportarono in un campo di concentramento vicino a Varsavia. In questo nuovo campo restammo da aprile ad ottobre: all’inizio c’erano 7000 prigionieri, un po’ di tutte le nazionalità. Poi scoppiò un’epidemia di tifo e colera che durò 40 giorni, morirono quasi 4000 persone. Il campo era gestito dai “figli di Stalin”, ragazzotti di 16 o 17 anni rozzi e ignoranti. Ci consideravano traditori della nostra patria, ogni pretesto era buono per spararci addosso“.“Un prete che parlava russo e tedesco si travestì da laico e corse a cercare aiuto. Ci vollero settimane, alla fine arrivò una pattuglia della Croce Rossa. I “figli di Stalin” fecero prigioniera anche quella pattuglia, quindi gli americani portarono i carri merci per rimpatriarci. Ma i russi li usarono per portare via tutto ciò che riuscirono ad arraffare. Alla fine arrivò l’esercito americano, che si fece garante del nostro rientro. Il 5 ottobre partimmo alla volta dell’Austria. Il 15 ero alla stazione di Legnano, dove rividi mio fratello. Pesavo 42 chili, in tasca avevo ancora il mio portafoglio e la mia pistola. Tutti i 22 ragazzi del Genio che erano sotto la mia responsabilità erano tornati in patria: 21 sulle loro gambe, uno su una barella della Croce Rossa. Alla fine si salvò anche lui”.