Magenta, 23 aprile 2014 - Sarà che l’unica strada da seguire resta, ormai, quella che porta su di sè cartelli dai nomi stranieri e dal suono esotico, sarà che la musica è l’arte che più di altre non ha confini e, se li ha, non sono geografici. Resta il fatto che l’Italia, e Magenta in particolare, si trova ancora una volta a registrare l’ennesimo allontanamento di un artista che, appena avuto il tempo di capire che qui gli ingranaggi ruotavano arruginiti, ha rivolto sogni, speranze e aspettative verso l’estero.

E quale Paese, al mondo, esiste di più adatto degli Stati Uniti per realizzare un sogno, quello di suonare, suonare non solo nel buio di una saletta con le pareti ricoperte di contenitori di uova vuoti, non solo nella penombra di piccoli locali di paese o in piena luce artificiale nelle centinaia di sagre che riempiono i momentanei festeggiamenti dei borghi di provincia? Questa è la storia di Riccardo Belletta, che ha iniziato a percuotere gli elementi di una batteria quando già aveva quindici anni ma non ancora l’idea che, per fare di questa passione un lavoro, sarebbe dovuto emigrare a Manhattan, New York. «Tutto è iniziato da una borsa di studio vinta per cinque semestri qui, in America – dice Riccardo – dopo aver studiato all’Accademia del suono di Milano e dopo una serie di esibizioni e prove con diversi gruppi della zona in cui ho abitato per anni, il Magentino».

Riccardo è nato nel 1990 a Magenta e ha frequentato il liceo scientifico Donato Bramante. Qui si ferma il suo curriculum italiano, in favore di un più nutrito percorso negli Stati Uniti. «Trasferirmi qui all’inizio non è stato semplice – spiega Riccardo – perché al principio si sente sempre un po’ di paura, la paura di non farcela e di non riuscire a entrare fin da subito nei meccanismi della lingua e della cultura che ti accoglie». Ma i timori erano soprattutto di ordine pratico perché, a livello musicale, Riccardo era già conosciuto nel suo Paese di origine.

«Ho suonato in diversi locali e avuto il privilegio di collaborare con personaggi del calibro di Paola Donzella, cantante degli Elisir, e l’artista Eli T. Per me, principalmente, questo è un lavoro. Ed è questo il perno del discorso: in Italia, per ora, la musica può essere una passione, un’attività da tempo libero, da coltivare mentre si cerca un mestiere ritenuto “serio” dalla maggior parte dei conoscenti. Solo negli Stati Uniti, invece, si ha la possibilità di contare qualcosa, di guadagnare facendo ciò per cui si è portati.  Quando sono andato via dall’Italia ho avuto l’impressione che la scena musicale fosse ferma, priva di fermento e di vitalità. Io suono Funk, R&B, Gospel, Reggae e Jazz: generi che, da dove provengo, non hanno un grande rilievo sulla scena. Eppure, credo che basti così poco per tramutare la passione in lavoro: qui, ad esempio, suono tutte le domeniche in una chiesa. Anche la messa, in America, ha un’anima diversa. È più viva, sentita e cantata. Tantissimi artisti hanno iniziato qui, dai santuari, a far conoscere il proprio repertorio. Questo è ciò che voglio fare, trasmettere la mia passione a tutti coloro che la sappiano apprezzare, siano essi fedeli di una chiesa o esperti musicali».