di Luca Balzarotti

Legnano, 25 aprile 2012 - La cicatrice sulla mano nasconde molto più del colpo di baionetta inflitto dai tedeschi per convincerlo a parlare. Terenzio Gomarasca, 86 anni il 2 giugno - festa della Repubblica - ha vissuto la Resistenza da infiltrato. Un partigiano nella tana dei nazifascisti. «Dovevo recuperare le informazioni e portarle ai nostri», ricorda il combattente magentino. «Ero piccolo e magro, non dimostravo neppure i miei 17 anni. Un fisico ideale per fare la staffetta».

La Brigata Colombini, guidata dal comandante Comincioli di Robecco sul Naviglio, un segmento della Divisione Alto Milanese, non ha avuto dubbi. Il giovane Terenzio era la persona giusta per fare da talpa. «Fui contattato da uno studente di farmacia che mi accennò della nascita del movimento partigiano», ricorda Gomarasca. «All’inizio del 1944, i tedeschi avevano pubblicato un bando. Cercavano ragazzi del posto disponibili a lavorare lungo il Ticino. Ma i patti erano chiari: chi fosse stato scoperto a collaborare con i partigiani sarebbe stato messo al muro. Io, su consiglio della mia Brigata, mi sono fatto assumere alla Todt proprio per avere informazioni segrete e portarle a loro». Il suo profilo si sposava alla perfezione con i requisiti del bando della Todt.

«Mi presero senza problemi: tutti i giorni andavo al Ticino, al confine di Boffalora. Facevo manovalanza: i tedeschi mi avevano chiesto di tagliare gli alberi del bosco piemontese per avere la visuale libera. Avevano paura che gli Alleati potessero risalire da Genova e arrivare in Lombardia». Paura. Una sensazione con cui il partigiano, non ancora maggiorenne, ha iniziato presto a convivere. «Come facevo a non averla?», spiega Gomarasca. «Facevo parte del Servizio Segreto. Stando tutti i giorni con i tedeschi potevo riferire alla Brigata le postazioni delle contraeree. Gli americani erano informati di tutto. Che rischio, però. Ogni giorno temevo che qualcuno potesse scoprire il mio ruolo da partigiano infiltrato. E i nazifascisti non scherzavano: non erano soldati, erano carnefici. I soldati sono un’altra cosa. Questi, invece, ti ammazzavano per niente». Il posto di lavoro alla Todt gli consentiva di circolare grazie al certificato di dipendente. Ma non di essere al riparo da ogni pericolo.

«Il punto di ritrovo - racconta il combattente - era il vecchio asilo di via Santa Crescenzia gestito dalle suore. Con la scusa di tagliare la legna, io e altri giovani partigiani ci incontravamo per lo scambio di notizie. Il giorno di San Biagio sono uscito dall’asilo convinto di passare inosservato vista la confusione che c’era per la fiera. All’incrocio con via Garibaldi, vengo fermato da due ragazzi dell’esercito repubblichino. Avevo le tasche piene di lettere partigiane. Un giovane di Magenta, intuendo il pericolo, mi ha chiamato. In quel momento è suonato l’allarme, c’è stato un parapiglia generale e sono corso a casa con la scusa della mamma anziana. Così mi sono salvato». Il compito più importante che il Servizio Segreto gli aveva affidato era il controllo dei treni.

«Dalla stazione di Magenta vedevo gli spostamenti verso Milano e Novara», racconta Gomarasca. «Il mio nome non era conosciuto nemmeno dai partigiani. Lo sapeva solo il comandante Giorgio Aminta Migliari, che guidava il Simni (Servizio militare nord Italia). Se mi avessero scoperto, sarebbe stata la fine. Qualcuno può chiedersi perché ho accettato questo rischio. La risposta è semplice: per un ideale. Ho vissuto i manganelli fascisti e la loro prepotenza. Quando ero a scuola, ci vestivano con la divisa Balilla per andare a Milano a seguire le manifestazioni sportive. Io non l’ho mai avuta completa: mi giustificavo dicendo che i miei genitori erano poveri. Un giorno a scuola mi dissero che senza l’uniforme mi avrebbero lasciato a casa. E io risposi: “Meglio”. Mi hanno sentito e ho preso una sberla. Ecco perché ho accettato di correre questi pericoli».

Il 25 aprile, giorno della Liberazione dell’Italia, lo ha vissuto con un mese di anticipo. «Quel giorno ero a Corbetta», ricorda. «Nel Servizio Segreto si sapeva da un po’ che sarebbe finita così. Quando arrivò la colonna della San Marco preceduta dal camion dei partigiani non fu una sorpresa. Secondo alcuni siamo eroi e secondo altri assassini? In guerra si fanno degli errori. C’è una grande differenza, però: i tedeschi prigionieri dei partigiani non venivano ammazzati, ma scambiati con altri prigionieri».

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