Incidenti, la colpa di sopravvivere. Famiglie abbandonate coi figli feriti

La storia di Stefano Rozza, rimasto paralizzato, e dei suoi genitori. "Pene severe? Inutili. Si pensi a curare chi resta invalido" di Daniele De Salvo

Pietro Rozza con la moglie Maria Luisa ricevono la benemerenza civica dall’allora sindaco di Merate

Pietro Rozza con la moglie Maria Luisa ricevono la benemerenza civica dall’allora sindaco di Merate

Milano - Omicidio stradale e ritiro della patente a vita per chi causa in modo doloso e non colposo, incidenti stradali mortali. Il dibattito è caldo non solo nelle sedi istituzionali (la riforma del codice della strada è stata già approvata dalla Camera e ora andrà all’esame del Senato), ma fra chi, purtroppo, ha provato e prova sulla sua pelle cosa voglia dire la morte di un figlio in circostanze simili. Ce ne ha parlato Roberta Battaglino, la mamma di Roberta Papetti, 15 anni, travolta e uccisa mentre attraversava la strada il 10 luglio 2013 a Gorgonzola, nel Milanese. Ma c’è anche un altro aspetto, sommerso, di queste tragedie. Sono le storie di chi sopravvive a un incidente stradale, ma resta gravemente menomato. Sono migliaia ogni anno i feriti e le famiglie se ne accollano quasi tutti gli oneri. Come i genitori di Stefano Rozza, che oggi ha 42 anni, ed è paralizzato in carrozzella. Ci raccontano la loro battaglia quotidiana per assicurare assistenza al figlio: gli anni passano anche per loro e sotto sotto c’è il solito dilemma straziante:che ne sarà di lui quando non ci saremo più? 

Merate, 13 ottobre 2014 - «Inasprire le pene verso chi causa incidenti non serve, la galera non risolve il problema, basterebbe solo revocare loro la patente per sempre per assicurasi che non provochino più del male. Occorre piuttosto pensare a come sostenere le vittime e i loro familiari, sia sotto il profilo economico, che per quello psicologico, sia per quanto riguarda gli aspetti sanitari». Pietro e Maria Luisa Rozza non hanno un attimo di esitazione.

Il 20 luglio 1988, Stefano, il loro figlio, aveva 16 anni e un’intera esistenza davanti. Si apprestava a frequentare il terzo anno di un istituto alberghiero e sognava di girare il mondo, soprattutto di visitare Machu Picchu. Un amico di famiglia con cui si trovava in vacanza in Puglia, perse il controllo dell’auto su cui viaggiavano e la sua esistenza, carica di progetti, cambiò rotta. Il conducente di quella utilitaria spense in discesa il motore della vettura per risparmiare carburante, l’impianto dei freni si bloccò e il veicolo alla prima curva andò dritto. Lo schianto, l’inferno.

Stefano da allora è costretto in un letto o in carrozzina, oggi di anni ne ha 42 e i suoi genitori hanno superato i sessanta. Hanno dovuto affrontare una lunga battaglia legale per avere un minimo risarcimento ma di quel denaro non possono disporne: «Noi abbiamo diritto unicamente ad alcuni presidi medici, all’assistenza domiciliare una volta ogni quindici giorni e al dietista. Per il resto ci siamo arrangiati in tutto, forse perché non abbiamo mai chiesto nulla a nessuno. Ci hanno obbligato a investire il risarcimento in titoli di Stato – spiegano -. Noi siamo i suoi tutori, ma il conto corrente è amministrato dal giudice tutelare che non abbiamo mai incontrato. Non abbiamo potuto utilizzare un centesimo nemmeno quando dovevamo comperare una casa adeguata».

È questa la rabbia più grande, non solo per leggi che non difendono chi per colpa altrui da ormai cinque lustri è costretto a letto e su una carrozzina, senza riuscire a parlare né a muoversi, ma di norme che non aiutano in alcun modo coloro che queste persone le accudiscono. La preoccupazione principale tuttavia rimane il futuro: «Quando non ci saremo più cosa succederà di Stefano? Finirà in un cronicario? Già adesso fatichiamo molto ad accudirlo, non siamo più giovani – racconta la mamma -. Mio marito dopo 26 anni di sforzi fisici ha l’artrite e alcune ernie, fatica ad alzarsi, ci siamo consumati per nostro figlio come è giusto che sia. Ma dopo?».