Nibionno, 03 maggio 2014 - Alex Galbiati è tornato a casa dall’Inghilterra, da solo, per la seconda volta in pochi mesi, perché il suo amico Joele Leotta, con cui a metà ottobre era partito per quello che tutti chiamavano il «giardino di Londra», non c’è più. Il ventenne di Molteno scampato alla mattanza costata la vita al coetaneo di Nibionno ha terminato la lunga deposizione, durata oltre una settimana di udienze, al processo che vede alla sbarra i quattro lituani accusati dell’omicidio. Con lui l’altra notte sono rientrati in Italia anche i genitori che lo hanno accompagnato, e la mamma e il papà del compagno del cuore, i coniugi Ivano e Patrizia.

Nell’albergo di Lower Stone Street a Maidstone, dove la sera di domenica 20 ottobre 2013 si è consumata la tragedia, non ha voluto più rimetterci piedi, come non ha voluto nemmeno incrociare gli sguardi di coloro che gli hanno rubato l’esistenza e i sogni di futuro, ma soprattutto che gli hanno strappato per sempre quello che era il suo punto di riferimento. «Ci eravamo conosciuti all’asilo — ha raccontato, protetto da un paravento, al giudice del tribunale della Corte della Corona della capitale del Kent e ai dodici giurati popolari — Da allora non ci siamo più lasciati, sempre insieme, anche le vacanze, anche a Maidstone. È stato Joele a convincermi, è stato lui a trovarmi il posto di lavoro, lui come lavapiatti, io come cameriere».

Gli amici erano insieme anche quella notte: stavano guardando la televisione in camera loro, al termine di una giornata tra i tavoli del «Vesuvius restaurant».

All’improvviso l’inferno. I lituani hanno sfondato la porta della stanza. Senza nemmeno concedere il tempo di comprendere cosa stesse succedendo è scattato l’assalto, feroce. I due brianzoli hanno provato a difendersi come potevano, a morsi e con una spranga in metallo strappata da un’anta dell’armadio, ma non è servito a niente.

Joele è stato immobilizzato, gettato a terra, sul pavimento, accanto al letto, poi sollevato in aria, massacrato di botte, senza pietà. Alex è riuscito a scappare in bagno, ha chiamato i soccorsi, due volte, alle 23.13 e alle 23.19. In mezzo sei minuti di follia e di furia omicida.

«Ad un certo punto — ha raccontato — sembrava se ne fossero andati, ma sono tornati e ci hanno di nuovo aggredito. Ho finto di svenire e mi hanno lasciato stare». Con Joele no, hanno concluso quello che avevano cominciato. «Quando tutto era veramente finito mi sono rialzato. Joele era in fondo alle scale, immobile». Attorno sangue, solo sangue, ovunque.

Lo ha riferito anche un altro ospite dell’ostello, Enrique Pareja, un cuoco spagnolo: «La loro camera era devastata, tutto distrutto, c’era solo sangue dappertutto». Pure Alex è sceso giù per la rampa, ha raggiunto l’amico e ha atteso l’arrivo dei poliziotti e dei medici.

Sono stati entrambi ricoverati, Alex in un ospedale di Maidstone, Joele al King’s College di Londa, dove è morto. Quello che non è chiaro è il movente del massacro, probabilmente semplicemente non c’è. «Un attacco brutale e insensato», ha sentenziato il procuratore che regge l’accusa. Ma gli imputati continuano a professarsi innocenti, si puntano il dito uno contro l’altro, screditano le vittime, mirano a confondere le acque. Tra un mese, entro i primi di giugno, verrà comunque emesso il verdetto, senza possibilità di appello, qualsiasi esso sia, compreso l’ergastolo.
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