Lecco, 18 ottobre 2013 - Una doccia fredda innanzitutto per loro, i medici dell’Asl Maurizio e Marziano Tedeschi condannati l’altro giorno in primo grado a un anno e quattro mesi per truffa (e falsità materiale) al Servizio sanitario nazionale che i due dovranno pure risarcire in separata sede. Poco contenti lo saranno anche molti pazienti, alcuni dei quali avevano testimoniato durante il processo sulla loro professionalità e che invece si trovano ad essere assistiti da altri medici dopo la sospensione dei fratelli Tedeschi.

Non è bastato per convincere il giudice Gian Marco De Vincenzi, il quale al contrario ha accolto la tesi dell’accusa secondo cui i due avevano frodato il pubblico perchè, come ha raccontato l’avvocato Federica Bonomini dell’Asl di Lecco (costituitasi parte civile), quando Maurizio Tedeschi visitava i pazienti del fratello Marziano impegnato a fare il dentista, «gli faceva sì un favore ma gli consentiva anche di guadagnare uno stipendio che di fatto non avrebbe meritato». Un lauto stipendio peraltro.

Qui si sostanzia di fatto il reato di truffa, sempre negato dal difensore (l’avvocato Marcello Perillo) il quale ha sempre sostenuto come in quel comportamento mancasse il requisito dell’inganno e che, al contrario, quella pratica fosse avallata dall’Asl. Più di uno spettatore di un processo definito da tutti mediatico (le indagini vennero avviate dopo il servizio su «Striscia») ha sollevato qualche perplessità proprio sul comportamento dell’Asl, che secondo molti non avrebbe vigilato a sufficienza sull’operato dei fratelli Tedeschi.

«Era difficilissimo, quasi impossibile scoprire il giochetto perché all’atto di emettere le ricette sostituivano le Sis a seconda della convenzione». A dirlo è Ilaria Molteni, l’ex dipendente chiamata anche a testimoniare al processo e da sempre attaccata dai due fratelli Tedeschi «perché sono ancora convinti che sia stata io a denunciare l’accaduto e a telefonare a Striscia».

«Lo ripeto per l’ennesima volta: non ho fatto alcuna denuncia perché amavo il mio mestiere e quel giorno dovevo rientrare al lavoro al termine della maternità. La sentenza? Non la commento, dico solo che confidavo nella giustizia».

di Andrea Morleo

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