di Daniele De Salvo

Castello Brianza, 7 agosto 2013 - Bocche cucite dai piani alti dell’Azienda ospedaliera lecchese sulla brutta storia di Miriam Maggioni, la 36enne di Castello Brianza uccisa consumata dall’anoressia dopo una settimana di agonia in un letto della Rianimazione dell’ospedale Alessandro Manzoni, dove era stata ricoverata solo al termine di un penoso peregrinare di 36 ore nei diversi Pronto soccorso della zona prima che qualcuno l’assistesse, come hanno denunciato i familiari.

«Si tratta di una vicenda personale, comprendiamo il dolore dei genitori e degli altri parenti, ma soprattutto per rispetto non riteniamo opportuno esprimerci», spiegano i vertici della sanità lecchese. Nessun commento nemmeno circa la volontà dei congiunti di appellarsi alla giustizia e di chiedere che sulla vicenda indaghino i magistrati a cui intendono rivolgersi con un esposto formale: «Se ritengono che siano stati commessi degli errori o delle negligenze è loro diritto intraprendere i provvedimenti che ritengono più opportuni».

I medici che a più riprese si sono occupati della paziente tuttavia ammoniscono che si è trattato di un caso complesso, non facile da gestire. «Abbiamo impiegato parecchio tempo per convincerla a farsi curare - spiegano i camici bianchi del reparto di emergenza del San Leopoldo Mandic di Merate, dove la paziente è approdata dopo essere stata dai colleghi di Lecco e del San Gerardo di Monza -. Non voleva nemmeno che le effettuassimo un prelievo del sangue, a stento siamo riusciti a somministrarle una flebo. Se è una persona è capace di intendere e volere non è possibile andare contro la sua volontà. Stavamo quindi meditando per proporre un tso, un trattamento sanitario obbligatorio, ma alla fine non è stato necessario giungere a tanto e abbiamo concordato il trasferimento nella Terapia intensiva del nosocomio del capoluogo».

Purtroppo però era tardi e il fisico già troppo compromesso per scongiurare il peggio, come sarebbe stato annunciato da subito alle sorelle. Pesava appena 25 chilogrammi, il corpo al collasso, l’organismo non è stato in grado di assimilare più nulla e in pochi giorni una crisi respiratoria l’ha stroncata.

«È morta per la malattia, ma anche per un sistema sanitario bloccato dalla legge e dalla burocrazia», sostengono il padre e la madre, la cui unica consolazione è che la figlia adesso ha smesso di soffrire, che all’estremo saluto, celebrato nella chiesa di Cologna, ha partecipato molta gente e che il suo ultimo desiderio di indossare un abito bianco e che un cuscino di rose rosse venisse deposto sul feretro è stato esaudito. «Siamo certi che da lassù dove è adesso proteggerà chi l’ha aiutata, chi invece ha sbagliato dovrà renderne conto; vogliamo unicamente che quanto le è capitato serva per risparmiare ad altre quello che lei invece suo malgrado ha dovuto affrontare».