di Daniele De Salvo

Barzio, 26 novembre 2012 - A Palma di Montechiaro, provincia di Agrigento, lo credevano morto, ucciso durante la Seconda guerra mondiale nello strenuo tentativo di mantenere la propria postazione durante un combattimento avvenuto l’11 luglio 1943 proprio nel paesone siculo. Per questo volevano dedicargli una strada in memoria del suo valoroso gesto. Ma lui, il carabiniere in congedo Francesco Canepari, è vivo e vegeto, anzi ieri ha festeggiato gli 88 anni.

Abita nella sua Barzio, in Valsassina, dove per anni è stato macchinista della funivia, insieme alla moglie, la quale, quando nei giorni scorsi è stata contattata dal sindaco del centro agrigentino che voleva annunciarle il riconoscimento alla memoria, ha quasi pensato si trattasse di uno scherzo. «Ma guardi che mio marito c’è ancora - ha risposto divertita dall’altro capo del telefono -. E’ qui davanti a me, se vuole glielo passo».

Detto e fatto, ha allungato la cornetta al consorte, che ha confermato di godere di ottima salute, nonostante gli acciacchi dell’età e soprattutto le numerose ferite rimediate in conflitto, tra cui quelle subite durante l’eroica azione che gli stava per valere la dedicazione di una strada.

«Insieme al mio commilitone Mario Usai abbiamo cercato di resistere ai soldati anglo-americani, ci siamo asserragliati in una casa e durante gli scontri abbiamo colpito un loro marines - ricorda il reduce -. Per tutta risposta loro hanno cercato di stanarci con una granata. Il mio compagno, che aveva 19 anni, uno in meno di me, purtroppo è stato ammazzato, mentre io ho subito gravi lesioni alle gambe». I «nemici» lo hanno comunque curato: «Me lo ricordo perfettamente, hanno vegliato su di me sotto un albero di mandorle, assistendomi per 24 ore e fornendomi medicinali per impedire che morissi anche io e per scongiurare l’amputazione di entrambi gli arti inferiori».

Poi il trasferimento forzato in Africa, in un campo di prigionia sanitario in mezzo al deserto per 14 mesi, trascorsi al riparo di un tendone e nulla più. Infine il ritorno a casa al termine delle ostilità nel maggio 1945. Lo attendevano i familiari e quella che poi è divenuta la sua compagna di vita. «Ho dovuto curarmi a lungo e anche adesso ne risento molto - racconta l’ex militare -. Dallo Stato non ho mai avuto nulla, nè un ringraziamento e nemmeno un po’ di aiuto, hanno perso tutti gli incartamenti. Mi sono sempre dovuto arrangiare. Per questo in qualche modo mi ha anche fatto piacere il riconoscimento che volevano attribuirmi, almeno qualcuno si è ricordato di me. Ma sono contento soprattutto per il mio compagno, non so se sarà possibile ma mi piacerebbe partecipare alla cerimonia».

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