Bulciago, 28 dicembre 2011 - Non si dimenticherà mai quella chiamata ricevuta quel sabato mattina esattamente di tre anni fa. Era il 27 dicembre 2008, dall’altro capo del telefono suo figlio che le comunicava che l’offensiva israeliana nella Striscia era cominciata, che gli era stato consigliato di lasciare Gaza ma che lui non sarebbe mai partito.

«Erano le 11 - racconta Egidia Beretta, sindaco di Bulciago, ma soprattutto mamma di Vittorio Arrigoni, l’attivista per i diritti umani dei palestinesi sequestrato e ucciso lo scorso 15 aprile proprio nella “sua” Gaza - La sua voce mi arrivava a tratti. Sconvolta sentivo il boato dei bombardamenti. Gli avevano offerto di valicare il confine. Gli avevano detto che poteva approfittare di un volo organizzato per una suora anche lei italiana, ma anche avesse accettato non si sapeva come avrebbe potuto fare. Lui naturalmente non c’è stato, si sentiva come il capitano di una nave che non poteva abbandonare i compagni di naufragio. È stato allora che ha realizzato che quello era il suo posto ed i territori occupati la sua nuova casa. Noi eravamo spaventati e preoccupati, ma anche ammirati. Mi sono raccomandata di stare attento e gli ho detto di lasciarsi guidare dalla sua coscienza che non avrebbe sbagliato».

È cominciata così l’avventura di Vik durante l’operazione Piombo fuso, la campagna militare delle forze di Tel Aviv per «colpire duramente l’amministrazione di Hamas al fine di generare una situazione di migliore sicurezza intorno alla Striscia di Gaza nel tempo, attraverso un rafforzamento della calma e una diminuzione dei lanci dei razzi, nella misura del possibile», come recitavano i comunicati del tempo. In realtà in venti giorni di combattimenti, condotti dal cielo, via mare e con un’invasione di terra sino al 18 gennaio 2009, furono rase al suolo caserme, distaccamenti dei pompieri, persino le scuole dell’Onu, abitazioni private, campi profughi, alberghi, stazioni televisive.

Alla fine la triste conta delle vittime arrivò a 1.203, la stragrande maggioranza civili, di cui 410 bambini, più oltre 5mila feriti. Un orrore testimoniato dall’attivista brianzolo all’epoca 33enne, di fatto l’unico occidentale sul posto, attraverso le sue corrispondenze e il blog Guerrillaradio. Oltre a scrivere e documentare quello che succedeva nell’indifferenza delle diplomazie e nel silenzio globale, prestava servizio sulle ambulanze e negli ospedali, spesso divenuti bersagli come si trattasse di obiettivi militari. «Lo sentivamo di rado, perché comunicare risultava difficile», ricorda quelle drammatiche settimane la madre. Una memoria difficile da sopportare e serbare, specie dopo l’assassinio di suo figlio, ma che non vuole cancellare perché «noi non dimentichiamo», proprio come voleva Vik.