Lecco, 15 settembre 2011 - Fece sognare l’Italia del dopoguerra con le sue imprese quel ragazzo atletico che veniva dalla ginnastica e sapeva danzare sulle pareti più inaccessibili anche dove la roccia strapiomba. Walter Bonatti sembrava invincibile anche dopo aver compiuto ottant’anni, con quella stretta di mano così energica da farti mollare la presa. Sul K2 la notte tra il 30 e il 31 luglio 1954 rischiò di morire per portare l’ossigeno ai conquistatori della vetta. Invece scese dalla “montagna degli italiani” per portare avanti una battaglia per la verità lunga più di cinquant’anni, cercando di ottenere giustizia per quel torto subito a oltre ottomila metri.

 

«Arrampicavamo sui calcinacci delle case bombardate, salivamo sugli alberi e dalla pianura più piatta della Brianza vedevo l’ondulazione del terreno, le Prealpi per me erano il tetto del mondo», raccontava qualche mese fa celebrando l’inizio di una carriera straordinaria di alpinista, esploratore, giornalista, fotografo e sognatore. Le sue vie sono ancora lì sulle Alpi e per chi le ripete oggi, a sessant’anni di distanza, sono un banco di prova. «Bonatti is God», (Bonatti è Dio): è una frase diventata celebre fra i più forti alpinisti di oggi. Nato a Bergamo il 22 giugno del 1930 aveva scelto di trascorrere la vecchiaia a Dubino, in provincia di Sondrio. A Lecco, sulle Grigne, mosse i primi passi verso la leggenda.

 

Fu capace di passare dove altri si erano arresi proprio come fece Riccardo Cassin negli anni Trenta. Bonatti fu il più forte degli anni ’50 e ’60. Protagonista di imprese come quella del Petit Dru, quando in sei giorni di scalata in solitaria superò la parete invincibile nel Gruppo del Monte Bianco. Così come l’impensabile solitaria sulla parete Nord del Cervino che impressionò il mondo dell’alpinismo. «Avevo un irrefrenabile desiderio di conoscere e misurarmi con la natura», spiegava di quella voglia di avventura: «Non sono un figlio della montagna, ma del fiume Po, che sognava le terre lontane di Jack London e Ernest Hemingway».

 


Nel 1958 con l’amico Carlo Mauri e Riccardo Cassin in veste di capospedizione si prese una clamorosa rivincita dopo la beffa del K2 conquistando la vetta del Gasherbrum IV, una cima che sfiora gli ottomila metri considerata impossibile e che ancora oggi in pochissimi sono riusciti a salire. Conclusa la grande avventura sulle montagne, l’orizzonte di Bonatti si fece ancora più vasto. Come esploratore e giornalista di “Epoca” andò per foreste inesplorate, deserti, isole piene di mistero e di fascino, tra i ghiacci dell’Antartide e nei crateri dei vulcani. Una curiosità che non lo ha mai abbandonato tanto che solo l’anno scorso fu protagonista di un’altra grande avventura fra i laghi acidi e le terre in ebollizione della Dancalia.

 


«Walter Bonatti è stato l’ultimo grande alpinista tradizionale - commenta Reinhold Messner che negli ultimi anni aveva stretto un forte legame con lui - . Bonatti è l’erede di Cassin. Sono sicuro che il suo stile e la sua filosofia basata prima di tutto sul grande rispetto per la montagna non andranno persi. Gli alpinisti che seguono la sua linea scoprono l’avventura».