Vi racconto la mia vita di allevatore: "Soddisfatto sì, ma quanta fatica"

La storia di Giovanni Castelli, 85 anni, e l'azienda agricola giunta alla quarta generazione

Giovanni Castelli al centro con il nipote che ha il suo stesso nome e il figlio Carlo

Giovanni Castelli al centro con il nipote che ha il suo stesso nome e il figlio Carlo

Ballabio 6 maggio 2016 - Ottantatrè anni compiuti il 29 aprile scorso, contadino da generazioni, Giovanni Castelli sabato scorso ha ricevuto un attestato dal Comune di Ballabio come il più vecchio allevatore del Comune valsassinese. Di sicuro è anche tra i più vecchi della provincia. Lo siamo andati a trovare nella sua casa di Balisio, dove settanta anni fa il padre Carlo decise di trasferirsi con le bestie, un tuffo nel tempo che fu tra ricordi e aneddoti di un mondo che non c’è più, una lezione di vita, senso del lavoro, umiltà e spirito di sacrificio di un uomo e del suo territorio.

Signor Giovanni, si ricorda quel giorno che si trasferì a Balisio?

«Eccome se lo ricordo: era il 24 maggio 1944 e salimmo da Lecco. Eravamo io, papà, la donna di servizio, due o tre mucche e l’asino. Mia mamma, i miei due fratelli Antonio e Giuseppe e mia sorella Luigia rimasero a Lecco, nella casa di viale Turati».

Perché quella decisione?

«Perché ormai non ci stavamo più. Quando anni prima il nonno Giovan Battista, originario di Bellano, comprò quei terreni nella zona non c’era nulla: ricordo l’area del tiro a segno, la casa di un certo Selmo, quella dei Sacchi e quelle che in dialetto chiamavano i Cà Ross. Poi però si cominciò a costruire e una volta morto il nonno, nel 1942, i fratelli decisero di andare ognuno per la sua strada e non c’era più posto per le bestie, così ci trasferimmo».

A che età ha iniziato a dare una mano a suo padre?

«Credo avessi una decina d’anni, aiutavo a togliere il letame dalla stalla: toccava a me che ero il maggiore e non c’era tanto da discutere, era così e basta».

Com’era Balisio nel 1944?

«C’era solo la nostra casa: al piano terra la stalla e al primo noi. Il resto erano solo prati e boschi, e non passava mai nessuno, solo qualche cavallo diretto a Lecco. Di auto nemmeno l’ombra, figurarsi. Quell’anno ricordo anche che d’inverno scendemmo a Lecco perché i tedeschi cercavano i partigiani nascosti alla colonia qui vicino e tirava brutta aria».

Com'erano quegli anni?

«Duri perché si faceva tanta e tanta fatica. Sveglia alle cinque per la mungitura e un gran lavoro per fare fieno. Ricordo quando lo si andava a prendere a Lierna: lasciavamo il trattore in piazza perché le strade erano strette, poi su per i pendii e poi giù con anche 130 chili sulle spalle. Credo che sia dovuto a quegli sforzi se oggi devo girare con una stampella perché le ginocchia mi fanno sempre un gran male».

È migliorata poi negli anni?

«Di sicuro. Di ritorno dal militare, che ho fatto nel ’52, ho cominciato a portare le mucche sugli alpeggi e ad allevare vitellini per ingrandirmi. Nel ’59 mi sono sposato e nel ’60 e ’61 sono nati Evelina e Carlo, a cui secondo la tradizione di famiglia ho dato il nome di mio. Nel 1964 abbiamo costruito la stalla nuova che poteva ospitare fino a 24 mucche».

E poi è arrivato un altro Giovanni Castelli, non è vero?

«Sì, è uno dei miei cinque nipoti che ha fatto agraria e che oggi manda avanti l’azienda di famiglia insieme a mio figlio che nel 2003 ha fatto la stalla più grande».

Quant’è oggi la vostra produzione?

«Abbiamo un centinaio di capi di bestiame e produciamo dieci quintali di latte al giorno: l’80% è trasformato in pasta casearia e consegnata agli stagionatori per diventare poi caprini invecchiati; il resto è latte che vendiamo alla cooperativa di produttori».